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PENSIERI LIBERI

Anche nelle notti da lupi l’unica cura è il pensiero

Alle tre del mattino, quando tutto s’aggruma come sangue uscito da chissà quale ferita quei latrati sembrano ancora più lancinanti. Ma è un avvertimento. E la nebbia si dirada...

Paolo Crepet (psichiatra, scrittore e osservatore del mondo giovanile e dei problemi dell'educazione)

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29 Luglio 2025 - 05:30

Anche nelle notti da lupi l’unica cura è il pensiero

Ci sono momenti della vita, e più si allunga più le probabilità crescono, in cui si odono lupi ululare. Qualcuno li ha chiamati «demoni», ma in ogni caso non si tratta di deliri, dell’esplosione dei segni di una follia. S’impazzisce senza essere pazzi. Si ha la sensazione di essere soli come in una steppa sferzata da un vento gelido. Soli, anche se si hanno vicino persone che potrebbero portare conforto, grazia, affetto profondo.

Niente da fare: è il momento della fragilità, dell’incertezza. Provi a camminare come hai sempre fatto, ma barcolli, o temi di farlo, come un ubriaco, continui a trovare inciampi anche dove non ci sono. Anche il pensiero si fa ripetitivo e gelido, lo temi soprattutto la notte perché sai che è quello il momento più precario. In un mio libro di qualche anno fa, ‘Coraggio’, ho indicato un orario preciso: le tre del mattino.

Ovvero quando tutto si addensa, s’aggruma come sangue fuoriuscito da chissà quale ferita interna e quei latrati sembrano ancor più lancinanti. Tutto diventa temibile e pauroso, le ombre aleggiano e ti seguono ovunque, anche dove vorresti vedere una luce. E in questo mesto vagabondaggio ti senti inerme. A volte ti sembra di abitare in un palazzo immenso e di correre da una stanza all’altra per trovare riparo dall’invisibile minaccia, sei improvvisamente tornato bambino quando cercavi il perché delle paure, dell’angoscia che t’aveva preso alla gola, stringendola fino a farti sentire solo il battito accelerato del cuore.

Tutto il male s’ingigantisce, ci si sente sopraffatti e, come scrisse Giacomo Leopardi, «tra questa immensità s’annega il pensier mio», ovvero si perde il senso della propria personalità. Anzi, la si nasconde a se stessi come se fosse proprio il pensiero il nemico che ci perseguita. Gli ululati che senti sono pensieri scomposti, irrazionali e temibili proprio per la loro tenacia, ostinazione, pervicacia. Vorresti cacciarli via come una mosca molesta, ma a nulla valgono i tuoi sforzi inconsulti, i gesti delle tue mani per allontanare l’insidia dalla fronte.

Sono fantasmi mentali, e nessuno può sapere se siano buoni o perfidi, scosse benefiche o allerte dolorose. Ogni bambino e ogni bambina hanno vissuto questa esperienza, anche se, da grandi, faranno fatica ad ammetterlo o anche semplicemente a ricordarlo. Ma è accaduto. E senza sapere davvero perché. La paura è ovunque anche se non sempre si materializza in qualche evento o prende forma. C’è chi crede che il pensiero sia un intralcio, che bisognerebbe vivere con più leggerezza; c’è chi dice che fin che «la barca va» occorre lasciarla andare... sì, ma dove? È questo che ti chiedi alle tre della notte intravedendo il vortice insidioso.

Qualche cuore tenero ti consiglia: «Lascia perdere, dai tempo al tempo, vedrai che passerà». È un imbroglio. Sono banalità che non sollevano l’anima. Anche se, fra quelle trite parole, una cosa saggia ci sarebbe, quasi un paradosso. Il pensiero è l’unica cosa che può aiutare, sollevandoti. E il pensiero, effettivamente, ha bisogno di tempo, proprio quando vorresti che quella sensazione, che così breve non è davvero, scivolasse via come un incantesimo, sparisse in un attimo come in un lampo sono arrivati l’avvilimento, la paura, l’angoscia, il senso di precarietà.

Tutto sembra entrare in gioco, e per compiersi tutto ha bisogno di un tempo, che non si può mai misurare, ma che occorre sapersi dare per far sì che l’incubo si trasformi in altro. Il pensiero è cura, ma ha bisogno di un tempo coraggioso, a volte egoista. Non pensare non serve, non solleva, non alleggerisce il peso dell’esistenza, che è fatta di ostacoli tanto quanto di slanci. Per questo bisognerebbe educare i più piccoli a pensare e a esternare il proprio pensiero anche quando, e soprattutto, è cupo.

Mi piacerebbe che in una scuola frequentata da adolescenti vi fosse la possibilità di poter parlare in pubblico, di fronte ai propri compagni e compagne, senza avere per forza qualcosa di impellente da dire, ma solo per il gusto di apprezzare il fluire dei propri pensieri, anche quelli scomposti, fratturati, incongrui, paurosi.

Allenarsi a non tenersi dentro ciò che si pensa e si teme non serve soltanto a comunicare con l’altro/a, ma soprattutto, e questo è il senso vero di tale metodologia, a parlare a se stessi, realizzando che è proprio nei momenti di solitudine, quando odi in lontananza i primi ululati dei lupi, quando stai attraversando qualche steppa della tua esistenza, ecco è proprio allora che il pensiero è utile, costruendo un ponte capace di farti attraversare un mondo improvvisamente avvolto nelle nebbie. È l’opposto di quello che spesso ci viene insegnato, che bisogna scrollare la testa per scacciare i cattivi pensieri, che piuttosto che guardarli in faccia è meglio ometterli.

Per questa ragione, da che mondo è mondo, esistono l’alcol e droghe di ogni genere: ci si illude che l’anestesia possa fermare, bloccare, addirittura cancellare ciò che si teme di sé e attorno a sé, mentre succede l’esatto contrario. Invece di continuare a consigliare all’amico che non ritrova se stesso di «non pensarci», bisognerebbe suggerirgli di pensarci di più e di non avere paura di farlo, qualsiasi sia la ragione che ha portato quelle nubi così dense di paura e dolore.

Ma per tutto questo occorre una sorta di formazione, di creazione del senso meno scontato del pensare; significa scovare il luogo della propria dignità. Forse bisognerebbe capire, comprendere fino in fondo, che «non pensare» oppure «smettere di farlo», non è solo impossibile, ma soprattutto inutile e dannoso alla formazione di una personalità. Voler pensare, anche quando i pensieri sono torvi o addirittura apocalittici, non è un atto di guerra contro se stessi, dunque non ci si può stancare di farlo. E’ un’attività dell’anima, non un interruttore che si abbassa o si alza a piacere.

Essere veri, ed è anche l’augurio più fervido, è poter morire pensando. I lupi esistono e vagano per la steppa gelida negli inverni della nostra vita, non ululano soltanto quando vedono che la «vittima» è ferita, sola e persa. A volte i loro gemiti giungono quando non ce li aspettiamo, quando ci sentiamo forti e ci sembra di vivere a favore di vento. Anzi, è proprio nel momento della forza che s’alligna la fragilità, depone le sue uova, rafforza le proprie radici, si prepara ad allungare l’ombra della nostra trepidazione.

I lupi latrano quando meno te l’aspetti, quando sei distratto da altro, forse anche quando vivi troppo incantato da te stesso. Sono proprio quei lupi che a volte mandano in mille pezzi lo specchio in cui ti ammiri compiaciuto. In questo senso si potrebbe capire che i loro ululati non vengono solo per spaventare, ma potrebbero perfino offrire uno spiraglio anche quando la foschia sembra improvvisa­ mente farsi fitta nella notte senza luna. Il lupo è un avvertimento, dunque un aiuto, anche se può sembrare l’inizio dell’inquietudine. A volte si tende a pensare che senza dolore e cadute la nostra vita sarebbe stata migliore, mentre c si dimentica di quanto fruttifera può essere quella debolezza se ben compresa.

Le lingue, quindi, il costrutto fonetico del pensiero, contengono scoperte prodigiose che condensano in un termine significati metaforici. In turco la parola yakamoz indica il riflesso della luna sull’acqua. Un pensiero che porta a credere che ci sia, ben oltre la notte più scura, qualcosa che supera perfino la fantasia, un’immagine di grazia. Anche se non riesci a crederci, anche se in quel momento è l’ultima cosa che riesci a sognare, la nebbia prima o poi finisce e appare l’immagine di una falce di luna riflessa su uno specchio d’acqua. Ci si può abbeverare, il tormento può allentare le proprie spire asfissianti e lasciare spazio a qualcosa che non avevi previsto: che i pensieri cambiano proprio perché hai lasciato spazio al pensare, generatore e improvvisatore dell’inaspettato.

IL LIBRO: ESISTE ‘IL REATO DI PENSARE’ OLTRE OGNI CONFORMISMO, SERVE CORAGGIO

Il ‘pensiero libero’ di Paolo Crepet è tratto da un capitolo del suo libro ‘Il reato di pensare. Oltre il conformismo, esercizi di libertà’, edito da Mondadori per la collana ‘Strade blu’ e pubblicato il 17 giugno 2025. Crepet prova a guidare tutti in un’epoca che esalta la libertà individuale, eppure qualcosa non funziona come dovrebbe: «il pensiero stesso è diventato il nuovo, insidioso bersaglio di forme di controllo subdole e silenziose, censure sottili e pervasive che reprimono l’originalità e il coraggio di essere autentici» si scrive nella presentazione. Di fatto, è un saggio.


Un viaggio «lucido e provocatorio» attraverso i meccanismi che soffocano la libertà di pensiero, denunciando come — lo spiega lo stesso autore — «in nome della comodità e della sicurezza, abbiamo finito per sacrificare creatività, innovazione e spirito critico». Ci svela inoltre «il prezzo invisibile della comfort zone: una trappola dorata che, mentre promette protezione, «finisce per svuotarci della nostra vitalità intellettuale ed emotiva».

Attraverso storie, esempi concreti e riflessioni penetranti, l’autore invita così i lettori a riappropriarsi del valore del dubbio, a riscoprire la forza dell’immaginazione e l’importanza delle relazioni autentiche, antidoti essenziali contro l’omologazione che dilaga. È un libro manifesto per chi non si accontenta della superficie e desidera riconquistare la potenza trasformativa del pensiero libero. Che incute timore e domanda coraggio.

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