L'ANALISI
15 Giugno 2020 - 07:00
La Pasqua del 1919 era «alta»: il carnevale, finiva il 4 marzo. Allora, il carnevale era una cosa importante. Le maschere non c'erano più sin dal 1916, ma, finita la guerra, le feste danzanti (che, del resto, non erano mai state completamente sospese) avevano ripreso in pieno; e, specialmente nei paesi, per il primo carnevale di pace, avevano organizzato delle cose in grande.
A Cortetano, per esempio, avevano deciso di fare un veglione di quelli che in un paese segnavano un'epoca. Ecco perchè la ventiduenne Maria Mattarozzi, cameriera all'osteria dell'Aquila Nera, una ragazza formosa, non molto alta, dai lineamenti marcati, dal parlar rude e dai costumi rigidi, aveva domandato due giorni di permesso alla proprietaria del locale, la signora Irene Bonini in Favalli. La Mattarozzi, era appunto di Cortetano e desiderava trascorrere gli ultimi due giorni di carnevale in famiglia e fra i giovani coi quali era cresciuta.
La signora Favalli le aveva accordato il permesso. Condizione: prima di partire, accudisse a tutte le normali faccende dell'esercizio: pulizia del locale, riordino delle stoviglie, preparazione della verdura che avrebbe dovuto esser cucinata per mezzogiorno.
L'osteria dell'Aquila Nera era sul Passeggio, quasi di fronte all'ingresso della casa dei Barnabiti, in quell'edificio che i bombardamenti del 1943 hanno gravemente danneggiato. Un'osteria, pulita, frequentata da una buona, numerosa clientela. Qualche avventore, quando la Mattarozzi lo serviva, aveva allungato una mano; si era sempre sentito rispondere in modo fermo e duro.
Verso le 7,30, dunque, di lunedì, 3 marzo 1919, la signora Irene Favalli era ancora assopita, quando sobbalzò per un rumore strano proveniente dalla sottostante osteria. Le pareva di intendere come lo strepito di una lotta, inframmezzato da lamenti e da grida soffocate. Poi, il silenzio.
Impressionata, la proprietaria si alzò, si vestì, sì lavò (tutti questi particolari sono necessari per comprendere meglio lo svolgimento dei fatti successivi) e, finalmente, scese nell' esercizio. Quando, più tardi, venne interrogata, disse che dal primo allarme al momento in cui le capitò la più tremenda avventura della sua vita, passò non meno di un quarto d'ora.
La signora, dunque, entrò nel locale. E vide due cose che l'agghiacciarono: la Mattarozzi, giaceva riversa nel camino, il capo quasi a ridosso della legna che era già stata approntata per far bollire una pentola d'acqua. Nel locale, un uomo di mezza età, la barba incolta, l'abito dimesso, lo sguardo feroce, che stringeva nella mano sinistra un doppio litro quasi pieno di vino e, nella destra, un coltello da cucina, gocciolante sangue.
L'uomo guardò trucemente la Favalli che il terrore immobilizzava, fece un passo verso di lei e, alzando minacciosamente il coltello, disse: «Taci, se ti è cara la vita!». La Favalli, come ripetè poi alle autorità che l'interrogarono, era talmente terrorizzata, che non sapeva nemmeno trovar la voce; ma il misterioso individuo fece un altro passo verso di lei, alzò il coltello anche più in alto e ripetè: «Una parola sola e sei morta!». Poi, sempre fissandola in modo estremamente minaccioso, cominciò a retrocedere (impugnava ancora, il coltello e il «litrone») in direzione della porta di strada, usci, scomparve.
Ci volle un minuto buono prima che la signora Favalli potesse riprendersi. Finalmente si lanciò a sua volta in strada, invocando disperatamente soccorso. Fuori (disse poi) l'assassino non c'era più. Accorse gente da tutto il rione di Porta Milano. E, dalla vicina stazione, giunsero due o tre minuti dopo, la guardia scelta Perticara, titolare dell'ufficio di polizia ferroviaria, e l'agente Nolli che per caso si trovava insieme al collega. Venne chiamata una vettura, gli agenti vi caricarono la Mattarozzi ch'era svenuta (nel trasporto dal camino ove giaceva alla carrozza, lasciò una larga traccia di sangue), la trasportarono all'ospedale. I sanitari, le riscontrarono venticinque ferite di coltello, le apprestarono qualche soccorso, la ricoverarono, priva di conoscenza, escludendo la possibilità che potesse sopravvivere. Alle 15,30, infatti, moriva.
Per ricordare nella nostra città un delitto così tremendo, bisognava risalire a parecchi anni addietro, quando, in Via Polluce, avevano assassinata la «Tortorella».
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