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Maginot, dalla guerra alla pace: da deposito carburanti a oasi naturalistica

I lavori iniziarono nell’agosto del 1940. La struttura contava sette serbatoi interrati nel cemento armato. Fu bombardato dagli Alleati

Elisa Calamari

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lromani@laprovinciadicremona.it

03 Dicembre 2013 - 16:25

Maginot, dalla guerra alla pace: da deposito carburanti a oasi naturalistica
La Maginot è una delle zone rivierasche più belle e suggestive della Bassa, amministrativamente sotto il Comune di Monticelli d’Ongina ma di fatto al confine con quello di Castelvetro Piacentino, è frequentata da tantissimi amanti del fiume in arrivo anche da fuori provincia. Paradossalmente più da cremonesi provenienti dalle società canottieri visto che per i piacentini arrivarci è un po’ più complesso. Insomma un’oasi di pace e tranquillità, che però deve il suo nome e la sua storia a fatti bellici. Il grande complesso detto ‘Maginot’, infatti, fu pensato e costruito quando scoppiò la Seconda guerra mondiale e rappresentava un punto di riferimento per i mezzi militari in quanto li riforniva di carburante. Un’accurata ricerca dello storico monticellese Giuseppe Fantini ha permesso di appurare che i lavori iniziarono il 17 agosto 1940 (data che troviamo incisa su un pilastro) e terminarono nel 1942. La Maginot in origine era un complesso di serbatoi, per la precisione sette e in cemento armato, interrati e tutti collegati fra loro per mezzo di tunnel. Il nome deriva infatti dalla famosa linea difensiva costruita lungo il confine nord-orientale della Francia, complesso integrato di fortificazioni, opere militari, ostacoli anti-carro, postazioni di mitragliatrici, sistemi di inondazione difensivi. Tornando a Monticelli, i serbatoi servivano appunto come riserva di benzina e venivano uniti fra loro da cunicoli e da un intreccio di tubazioni per il riciclaggio della benzina stessa, che poi usciva per mezzo del sollevamento dell’acqua. I pilastri che sostenevano i maxi serbatoi erano 69 e tutta la costruzione era in cemento armato e ricoperta da un ammasso di terra. 
A realizzare il progetto fu l’ingegnere Mezzadri, mentre l’impresa costruttrice la Sic di Piacenza. Vi lavorarono più di mille addetti fra capicantiere, muratori e manovali provenienti da diverse località piacentine e non: Cremona, Croce Santo Spirito, Castelvetro, Monticelli, San Nazzaro, Casalmaggiore. A raccontare a Fantini le fasi di lavorazione e altri dettagli (come appunto la provenienza degli operai e la paga che percepivano, ammontante a 3,5 lire giornaliere) è stato Valerio Demaldè di Croce Santo Spirito che all’epoca della costruzione fu assistente di una squadra di operai composta da 12 uomini. Una volta terminato, il complesso di serbatoi e tunnel usato per garantire una riserva ai mezzi bellici poteva contenere circa un milione e 400mila litri di benzzina. Ebbe vita breve perché venne bombardato nel 1943 da tre caccia bombardieri dell’esercito degli Alleati. «Per un certo periodo ho lavorato al complesso Maginot e nel ’43 c’era il continuo pericolo dei bombardamenti, quando suonava l’allarme noi uomini scappavamo saltando il reticolato—aveva raccontato Eugenio Barbieri anni fa in occasione della stesura del libro ‘Amore mio, non piangere’ realizzato dalla scuola media di Monticelli —. Non potevamo passare dal cancello principale perché i tedeschi, che controllavano tutto il complesso, ce lo impedivano pistola alla mano». Il ’43, anno del bombardamento della Maginot e dell’armistizio siglato da Badoglio, a Monticelli ci furono anche spontanee manifestazioni popolari contro il vecchio regime: alcuni uomini si arrampicarono sul cornicione delle scuole per abbattere la statua con l’aquila che era stata issata, altri entrarono nella sede del fascio e spaccarono tutto ciò che trovarono staccando i quadri dalle pareti e bruciandoli in strada.
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La curiosità
A Monticelli l’armistizio firmato da Badoglio l’8 settembre 1943 fu vissuto come una circostanza drammatica. «Ci siamo subito resi conto che la situazione sarebbe precipitata—racconta l’ex sindaco e partigiano Emilio Pecorari nel libro ‘Il sogno di una vita’ realizzato pochi anni fa —. La nostra particolare posizione geografica, punto d’incontro di tre province era cruciale». Isola Serafini, ad esempio, diventava un passaggio obbligato per i militari italiani di stanza nelle località più svariate, che scappavano verso casa. «Gettavano le divise per non farsi riconoscere, chiedevano vestiti borghesi e cibo—ricorda ancora Pecorari —, si muovevano come formiche impazzite con la voglia di attraversare il Po. Noi disponevamo di un piccolo battello e abbiamo avuto un gran d fare a traghettarli. L’importante era evitare l’incontro coi tedeschi che stavano organizzando retate per imprigionare i soldati italiani e convogliarli verso la Germania».
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