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Bella, sola, uccisa... e un paese trema

Da Michele Brambilla un noir raffinato sui vizi della provincia italiana nel 1980

Paolo Gualandris

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pgualandris@laprovinciacr.it

03 Settembre 2025 - 05:30

CREMONA - «Piccola città bastardo posto... Piango e non rimpiango, la tua polvere, il tuo fango, le tue vite» cantava nel 1972 Francesco Guccini. E nel fango della provincia è andato a immergersi Michele Brambilla, giornalista di lungo corso, di quelli che hanno cominciato consumando le scarpe sui marciapiedi di periferia a caccia di notizie, con il romanzo «Non è successo niente di grave». Un noir raffinato fra cronaca e memoria.

Siamo nella Brianza del 1980, viene uccisa una dottoressa, bellissima donna che non ha mai dato confidenza a nessuno del paese, e subito scatta il pettegolezzo. «Certamente una storia di letto», si sussurra, perché in quel contesto si vive di storie così e di altri segreti inconfessabili. Invece nulla di tutto questo. Parte tutto da una telefonata nella notte del 7 marzo: «Alza le chiappe e vai a Besana Brianza, hanno ucciso una donna». Da quel momento, un giovane cronista si trova catapultato in un’indagine che diventerà uno dei casi più avvincenti della cronaca nera nazionale, fra bugie e verità scomode. Dietro quella morte violenta si nascondono segreti, passioni proibite e un mondo di voci sussurrate che fanno tremare le famiglie e scuotono le istituzioni. Brambilla parla del suo romanzo con Paolo Gualandris nella videointervista.

IL PRETE E IL MARESCIALLO

«Ho vissuto veramente questo clima 45 anni fa, quando 21enne facevo il cronista del Corriere di informazione. Seguendo un delitto in Brianza mi accorsi che c’era il fermento di una comunità preoccupata che gli inquirenti, indagando sul delitto, mettessero il naso nei suoi affari personali». Accadde per davvero che a interrogatori in corso la gente si affollasse vicino alla caserma dei carabinieri, non tanto, come succederebbe oggi, per farsi riprendere dalle telecamere, ma per capire se era uscito qualcosa che potesse disturbare qualcuno del villaggio.

«Seguendo un altro delitto, io e il collega Beppe Cremagnani dell’Unità, che purtroppo non c’è più e che nel libro è citato, un personaggio reale e un grande giornalista, ci accorgemmo che gli interrogatori venivano organizzati di notte in modo che se qualcuno di insospettabile fosse convocato in caserma non sarebbe stato visto. Quindi di notte io e questo collega andavamo fuori dalla piccola caserma durante gli interrogatori e questo paese, solitamente deserto dopo le 19.30 quando si tirano giù le saracinesche, era misteriosamente animato da decine di macchine che passavano attorno alla caserma. Ogni tanto qualcuno si fermava, chiedeva informazioni a noi».

Un universo popolato da personaggi che il cronista Brambilla sa caratterizzare con estrema efficacia e ironia, si potrebbe dire alla Simenon, uno dei suoi scrittori mito al pari di Piero Chiara, Fruttero e Lucentini. A partire dal prete, don Tranquillo, che punta l’indice sul sentimento del paese spiegando che «tutti hanno qualcosa di inconfessabile, tutti, nessuno è escluso».

Com’è che il cronista è andato, in maniera del tutto inusuale, dal prete? «Purtroppo lo feci veramente in un altro caso di omicidio. Qualcuno in un paese ipotizzò che l’assassino si fosse confessato e io, che allora ero uno sciagurato, andai dal parroco a chiedergli conto. Cosa assurda perché dei preti ne abbiamo sentite dire tutti i colori, ma mai che abbiano svelato un segreto confessionale. Nella realtà io fui buttato giustamente fuori a calci nel sedere dalla chiesa. Nel libro invece faccio parlare don Tranquillo. All’inizio del libro sembra una macchietta che dice le solite banalità a matrimoni e funerali, ma poi svela una sua profondità e dà a quel ragazzo impertinente una lezione anche di vita. Cioè spiega che tutti hanno qualche cosa da nascondere, tutti noi siamo peccatori e nessuno può ergersi a giudice degli altri. Uno strano prete in cui convivono don Abbondio e una certa saggezza che la Chiesa ha».

Non molto diverso per approccio alla vita il maresciallo Vicinanza, costretto a indagare contro voglia. «Anche questo ispirato a un personaggio vero, chiamato a occuparsi di un delitto rimase sconvolto perché, diceva, che era la peggior disgrazia che gli potesse capitare. Stava per andare in pensione. D’altra parte un maestro dei gialli dei noir come Antonio Manzini fa dire a Rocco Schiavone che l’omicidio è una rottura di coglioni del decimo grado». E però anche lui è un personaggio che saprà riscattarsi.

HORRIBILIS ANNO DI LIBERTÀ

Il giallo è un pretesto narrativo, veri protagonisti sono la provincia e i personaggi che la popolano, «che a me hanno sempre affascinato». Così come non è stato scelto a caso l’anno: il 1980. «Non fu bellissimo per l’Italia, anzi. Ci fu la strage più grave della nostra storia, quella della stazione di Bologna, e poi quella del treno Italicus, il terremoto dell’Irpinia; è l’anno dell’omicidio di Walter Tobagi e in cui i carabinieri uccisero quattro brigatisti nel sonno, del terrorismo che colpiva ancora, sia quello rosso che quello nero. Però era finita la sbornia di piazza degli anni Settanta in cui ci si picchiava nelle scuole e nelle piazze e tutto era politicizzato. Questo numero 8 così rotondo, che si legge da destra a sinistra, dall’alto al basso, sia in lettere che in cifra, ci dava la sensazione che l’Italia stesse uscendo da un periodo cupo e una generazione, la mia, stava finalmente cercando di godersi la vita, di non farsela avvelenare dall’estremismo, di ridere, di star bene, di fare le cose che i ragazzi hanno diritto di fare. Non a caso gli anni Ottanta sono ricordati come gli anni del riflusso, della Milano da bere, di Drive In, di una certa rinascita che poi non so quanto sia stata reale. Ma sicuramente il 1980 diede a tutti simbolicamente l’impressione di aver chiuso una fase grigia».

LA RIFLESSIONE: «NEL MONDO CHE CAMBIA C'È ANCORA BISOGNO DI CHI RACCONTA SOLO CIÒ CHE HA VERIFICATO»

Altro grande protagonista del romanzo di Michele Brambilla è il giornalismo, o meglio: un certo modo di fare il giornalismo che oggi non esiste più. Anche qui c’è molto dell’esperienza dell’autore: ha iniziato come nerista in strada, poi negli anni ha diretto vari giornali arrivando ora alla guida del Secolo XIX di Genova. Sono 40 anni di carriera in cui il mestiere è cambiato. Nel romanzo si racconta, con malcelata nostalgia, della possibilità di raccontare le storie che oggi in qualche modo è negata.

«È cambiato il mondo. Io parlo nel libro dei quotidiani del pomeriggio. Uscivano con due edizioni e riportavano le notizie della notte e della mattinata a un Paese che aveva un solo telegiornale, quello delle 20 sulla Rai. Molto vivaci, a volte urlati, ma con grandi direttori come Gino Palumbo, Nino Nutrizio, Gaetano Afeltra che hanno fatto la storia d’Italia. Non mi sono mai divertito tanto come in quel periodo. Il Corriere di informazione morì ufficialmente il 15 dicembre 1981, ma in realtà qualche mese prima, a maggio, con la tragedia di Alfredino Rampi, il bambino precipitato in un pozzo artesiano a Roma. Una tragedia che commosse tutta Italia. La Rai organizzò una diretta di tre giorni col presidente Sandro Pertini sul posto, tutte le notizie venivano date in diretta. A un certo punto uno speleologo riuscì a afferrare il polso del povero Alfredino e noi che stavamo chiudendo l’edizione, azzardammo il titolo ‘Alfredino è salvo’. Purtroppo, quando il giornale fu distribuito alle edicole, il bambino era già precipitato ancora più in basso. Quel giorno muore Alfredino, muore il Corriere informazione, muore un modo di far giornalismo ormai superato dalla diretta tv. Dopo ci sarebbe stato molto di più, telegiornali tutte le ore».

Che senso ha ancora fare questo nostro lavoro? «Ne ha molto - è sicuro Brambilla -. L’illusione di molti editori nella speranza di risparmiare è fare scrivere articoli all’intelligenza artificiale non capendo che il giornalista non è solo uno che scrive, ma è soprattutto uno che va a vedere una cosa e la racconta a chi non c’è stato. Ci vorrà sempre un essere umano che va sul posto, ascolta i testimoni, vede cosa è successo e lo racconta».

Oggi siamo massacrati dalle fake news, ma la gente comincia a capire che non tutto quello che esce sulla rete e sui social è vero, «e infatti quando ci sono grandi fatti come terremoti, guerre, crisi, si registra un’impennata di connessione ai siti dei giornali tradizionali perché il lettore ha bisogno di un’informazione sicura, certificata, attendibile, penalmente e civilmente perseguibile. Perché se noi sbagliamo, e capita, paghiamo; chi sui social racconta balle invece non paga nulla».

Cambia anche il rapporto con il potere: vorrebbe che i giornalisti fossero più che degli informatori, dei ripetitori di comunicati che vengono dall’alto e che limitano i lettori nella loro libertà di approfondire le notizie. «Questo è un vero problema - ammette Brambilla -. È un passaggio culturale molto grave. Certamente, il palazzo vorrebbe che noi fossimo megafoni dei loro pensieri. Un giornalismo indipendente resta un baluardo fondamentale della democrazia. E questo è un primo motivo per cui il mondo a un certo punto capirà che non può sapere cosa succede solo dai tweet dei presidenti del Consiglio. Provate a immaginare che cosa sarebbe il mondo oggi senza giornali, solo con i social: non si capirebbe più nulla, non si saprebbe più niente di cosa è vero e cosa non lo è e saremo tutti manipolati di fatto».

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