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«Magnificat», il romanzo d'esordio di Sonia Aggio

Nei misteri del Grande Fiume: storia, magia, tradizioni e paura si mescolano nel testo. Un grande omaggio al Polesine nel ricordo della devastante alluvione del 1951

Paolo Gualandris

Email:

pgualandris@laprovinciacr.it

12 Ottobre 2022 - 05:20

CREMA - «Sento l’urgenza di consigliare la lettura di questo stupefacente Magnificat  (...) perché è il romanzo d’esordio di una ragazza nata a Rovigo nel 1995, che non ha paura di raccontare la sua terra, ricca, misteriosa e senza tempo, percorsa dal Grande Fiume.  Perché non narra il presente, forse troppo scivoloso e torbido, ma lascia che il tempo calmi le acque, e racconta con cura e affetto gli anni dell’alluvione del 1951. Perché in epigrafe appare una citazione dal Don Camillo di Guareschi, e questo mi commuove e mi consola. Perché nel romanzo si leggono frasi come ‘So mare gà trovà el leto desfà, no ghe iera ee so scarpe’ e ‘Pora fioea, Maria Vérzine’. Perché, infine, è ben riconoscibile nelle pagine di Magnificat la centralità del paesaggio: il marchio di qualità forse più evidente di una narrativa veneta che affonda le radici tra i grandi maestri del Novecento, ma che prova, in tanti modi e con tante voci, a dire ancora oggi qualcosa di nuovo e, perché no, di bello».

Per iniziare a raccontare il romanzo d’esordio di Sonia Aggio, non c’è rappresentazione migliore delle parole  di un grande scrittore come Paolo Malaguti,  narratore della sua terra, della sua storia e delle sue tradizioni. 

Aggio, che ha dato alle stampe il suo primo romanzo  dopo una serie di racconti segnalati in vari premi tra cui il Campiello giovani,  parla di Magnificat con Paolo Gualandris  nella videorubrica Tre minuti un libro in rete da oggi sul sito www.laprovinciacr.it.

«Il titolo è un omaggio a un’opera di Sandro Botticelli, La Madonna del Magnificat,  opera molto intima probabilmente destinata a un uso domestico, che mi ha colpito   per la presenza di cherubini,  belli e androgini, che  mi hanno ispirato nella fisicità delle protagoniste, Nilde e Norma», spiega Sonia.

Sono cugine, ma è come se fossero sorelle. Sono coetanee e, crescendo, il loro legame è diventato sempre più forte, fino a trovare rifugio l’una nell’altra dopo la morte dei rispettivi genitori avvenuta durante i bombardamenti del 1944. Un pomeriggio Norma rientra a casa visibilmente sconvolta: ha le ginocchia sbucciate, delle ferite sui gomiti.

A Nilde racconta di essere caduta mentre percorreva l’argine del fiume Po in bicicletta per rientrare a casa. Ma Nilde sin da subito sospetta che non si tratti della verità.  I comportamenti di Norma, da quel momento, si fanno sempre più bizzarri: a ogni temporale raggiunge il fiume correndo sotto la pioggia, fa in modo che Nilde perda le sue tracce per giorni; ha uno sguardo sconvolto e si nega all’aiuto di chiunque.

Un giorno, mentre la pioggia non dà segno di volersi placare, il Po è in piena e minaccia di rompere gli argini, Nilde scopre il segreto che ha allontanato Norma da lei. Ai lettori il piacere di scoprirlo a loro volta. L’alluvione del 1951 travolse il Polesine cambiandone completamente lo scenario geografico, urbano e  umano.

«È un evento che  ha segnato un punto di rottura con  il passato, quindi anche con una serie di tradizioni:  una società è collassata nel giro di una notte. Ho voluto dare un tributo proprio  a questa società, alle  centinaia di migliaia di persone  emigrate per non tornare mai più, ricordandogli ultimi mesi prima dell’alluvione».

Un evento raccontato attraverso le parole e la vita di due cugine la bella e dolce Nilde e la bellissima ma contrastata Norma. «Il fatto di essere rimaste orfane nello stesso momento ha siglato il loro legame, sono anche ragazze con caratteri molto diversi che nonostante questo si sono scelte e hanno scelto di continuare a vivere insieme,  di continuare ad amarsi di supportarsi a vicenda. Un legame elettivo  più forte sia delle situazioni esterne e quindi dell’alluvione in sé , dei drammi della povertà. Certo, hanno  contrasti,  litigi e  incomprensioni che durante i sei mesi aumentano sempre più, ma  resta un amore che arriva anche al sacrificio finale. È quel tipo di affetto e di amore che non ha bisogno di essere espresso a parole perché si manifesta nei gesti della quotidianità».

In Magnificat si sente fortissimo il senso della tragedia, comunicata sin dalle prime righe: non sai che cosa accadrà, ma la senti. «Volevo che fosse così,  volevo che il lettore avvertisse  l’avvicinarsi di questa tragedia come un conto alla rovescia verso un finale, l’alluvione, che lui conosce come realtà storica, ma le protagoniste no».

C’è anche un senso molto mistico di legame con il territorio,   con una forte impressione di realismo magico che sposta l’attenzione dal terreno all’ultra terreno. 

«Il territorio diventa il mezzo attraverso cui fare accadere delle cose che banalmente possiamo considerare soprannaturali, che trascendono la comprensione umana. Di fatto non c’è mai una spiegazione di questi fenomeni. C’è da parte della comunità una condivisione di questo retaggio di leggende, di percezione di tradizioni che, non viene effettivamente messo in discussione e che si trasmette di madre in figlia. Tutti gli abitanti del paese lo condividono. Il mio territorio mi rappresenta, l’ho sempre trovato molto affascinante, inoltre con questo romanzo  cancello una serie di stereotipi che si applicano al Polesine,  considerata zona depressa.  Ho voluto comunicarne la bellezza e il piacere di viverci nonostante la drammaticità dell’argomento».

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