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Domenico Cacopardo, il peccato dell'indifferenza

L’ex magistrato racconta la società siciliana (forse anche italiana) con la storia di un affarista mafioso non per affiliazione ma nei comportamenti

Paolo Gualandris

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pgualandris@laprovinciacr.it

05 Ottobre 2022 - 05:25

CREMONA - «Ho semplicemente voluto raccontare la normalità del male». Domenico Cacopardo, siciliano vissuto in varie città italiane, Consigliere di Stato sino al 2008, una condannato a morte dalle Brigate Rosse scongiurata dall’intervento dell’allora comandante della Legione Carabinieri di Palermo Carlo Alberto Dalla Chiesa, spiega così il senso ultimo di «Pater», il suo nuovo romanzo, del quale parla con Paolo Gualandris nella videorubrica «Tre minuti un libro», online da oggi sul sito www.laprovinciacr.it, alla vigilia del suo arrivo a Cremona.

Prima di entrare nel merito del libro, c’è una consonanza fra d’essere il magistrato essere giallista? Cioè, si segue seppure in maniera diversa il fine ultimo di fare giustizia? «Il lavoro del magistrato sia amministrativo che civile è analitico e può aiutare a scrivere un libro. Rifiuto la divisione in genere e, se guardo i miei libri, preferisco definirli racconti di porcherie di vita politica e di vita civile». E «Pater» è esattamente questo, un libro che introietta e sintetizza una serie di storie siciliane di cui nella sua lunga carriera è venuto a conoscenza diretta o indiretta. Come il caso citato nel romanzo di Eufemio,   zona dell’immaginario comune di Monturi sulla costa, del quale il protagonista riesce a realizzare l’enorme, titanica, discarica di rifiuti di tutto ciò che veniva estratto dalle innumerevoli gallerie realizzate per l’autostrada da Messina a Catania.

«È avvenuto realmente e tutto ciò ha modificato l’andamento della costa, ha creato problemi umani nel paese vicino», spiega Cacopardo,  ed è stata opera di un avvocato che poi è stato portato via in giovane età da un infarto fulminante ma che era personaggio molto simile al mio Cataldo Giammoro, il Pater». In sintesi, Giammoro, giovane messinese di buona famiglia, perde in un’imboscata il padre Guglielmo. Nel ’46, dopo la Liberazione, il potente e controverso zio paterno decide di chiudere la partita seppellendo nel cimitero di Monturi un feretro dal contenuto misterioso. Si occupa delle proprietà di famiglia e inizia la carriera di avvocato. Diventa il più influente membro dell’amministrazione comunale, disponendo assunzioni e appalti benché non sia né sindaco, né assessore. Da qui parte la sua grande ascesa di affarista.

I suoi riferimenti sono politici e criminali. Ma la scalata comincia a manifestare forti rischi. Due ufficiali della Guardia di Finanza lo minacciano, lo mettono in allarme e infine gli propongono di pentirsi e raccontare tutto. Il finale è un omaggio a Sciascia e al suo romanzo «Una storia semplice». Facendo tesoro proprio della lezione di Sciascia, Cacopardo punta il dito sull’ignavia della società siciliana (o italiana?).

«Sono vissuto per anni in questa isola insieme a persone della borghesia normale la cui caratteristica principale è l’indifferenza. La mafia è così forte in Sicilia perché c’è una quota modesta di persone che militano nell’antimafia e che sono veramente contro le cosche, poi ci sono i mafiosi che spesso si infilano nell’antimafia per portare a casa benefici. Ma il corpo grosso di questa regione è e resta indifferente. L’indifferenza è il terreno di coltura di tutte le porcherie che avvengono, generando un complessivo inquinamento della vita civile. Un sistema, che racconto anche nel libro, per cui in Sicilia se tu hai bisogno di un certificato qualunque non puoi presentare un’autodichiarazione, vogliono quella carta per avere la quale ti devi recare in comune e qui l’addetto allo sportello ti fa un favore a dartela. Si crea un rapporto incestuoso tra pubblici poteri e cittadino impregnato di interesse privato, ed è purtroppo un modo di vivere. Un modo di vivere riassunto da un alto magistrato, di cui non ho un buon ricordo, che a Palermo disse esplicitamente ‘il diritto si attua e per degli amici si interpreta’. Il massimo dell’ignominia, la teorizzazione dell’ingiustizia, un sistema in cui l’interesse privato prevale sempre su quello pubblico. Nel mio ex paese quando uno si candidava al Consiglio comunale lo faceva solo perché aveva da fare una lottizzazione».

Giammoro è cresciuto con la lezione di suo padre: farsi gli affari propri e lui sapeva farli bene, non essere mai esosi e dividere i guadagni cioè non essere avidi, ma cercare di distribuire l’utile al maggior numero di persone possibile. È un personaggio che seduce, del quale si subisce il fascino, è un uomo colto raffinato, ma alla fine scopri che in realtà non è mafioso, nel senso che appartiene a una cosca, ma nei comportamenti. Quindi il bene e male non esistono?

«Esisteranno pure - risponde Cacopardo -. Però da magistrato ho rifiutato o momenti conviviali con parenti e amici perché rischiavo di trovare persone considerate stimabili, ma che non lo erano affatto. Spesso i carabinieri mi avvertivano che alcune persone, di rilievo nella realtà, dietro le quinte erano sospette. Questo dietro le quinte in Sicilia è inquietante perché è così sia per certi  giovanotti che stanno a fare il guardamacchine in uno stabilimento balneare ma anche per avvocati, e anche magistrati che pontificano diventando personaggio di riferimento e poi hanno tanti peccati da farsi perdonare. La storia ce lo insegna: Falcone e Borsellino hanno realizzato il più grande processo alla mafia che ci sia stato mai nella storia, poi però un processo del genere non si è mai più fatto. Perché Falcone e Borsellino su basavano non si teoremi, ma andavano alla ricerca di indizi, di reati, di prove. Falcone, tra l’altro, era odiato in Procura per una semplice ragione: lui lavorava moltissimo e gli altri facevano poco o nulla, per cui metteva in rilievo la fannullanza generale. Così succede nell’amministrazione dello Stato».

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