L'ANALISI
20 Maggio 2025 - 05:30
Viviamo in un tempo in cui le opinioni tendono a irrigidirsi in schieramenti contrapposti. Su ogni questione — dal climate change alla guerra, dai diritti civili all’immigrazione — sembra impossibile adottare una posizione intermedia, articolata, sfumata: o si è a favore o si è contro. In mezzo, apparentemente, non c’è nulla.
Questa polarizzazione non è solo un dato sociologico: è un problema culturale profondo, che mette in crisi il pensiero critico e favorisce superficialità e conformismo. Senza incorrere in demonizzazioni che non mi appartengono, penso che i social media abbiano un ruolo attivo in questo fenomeno. Gli algoritmi premiano i contenuti più reattivi, non quelli più riflessivi. Il valore di una parola si misura spesso in base alla sua capacità di generare interazioni, non di stimolare pensiero.
Il dibattito spesso si riduce a slogan, etichette, stereotipi. Si è spinti a prendere posizione prima ancora di aver potuto comprendere. Il confronto cede il passo allo scontro, l’ascolto alla militanza. L’ideale democratico del dialogo si smarrisce in una guerra di affermazioni reciproche, ciascuna intenta più a imporsi che a comprendere. L’obiettivo non è più cercare la verità, ma rafforzare il proprio campo, anche a costo di distorcere i fatti. Le radici del problema sono però più antiche e profonde. Richiedere tempo per capire, studiare, riflettere è diventato quasi un lusso nella società della fretta.
Ogni giorno siamo sommersi da informazioni, stimoli, notifiche. Viviamo in un eterno presente. Si chiede di reagire, non di ragionare. La semplificazione vince perché è rapida, ma è anche ingannevole. In questa realtà il pensiero, come ricordava Hannah Arendt, rischia di essere ‘pericoloso’ perché impone di sospendere il giudizio immediato, di tollerare il dubbio, di confrontarsi con la complessità. Solo questa sospensione, tuttavia, rende possibile un giudizio autentico. Senza pensiero il giudizio si trasforma in pregiudizio. E il pregiudizio, a sua volta, alimenta la paura, la chiusura, la disumanizzazione dell’altro, la banalizzazione.
Quanti esempi quotidiani di questa deriva potremmo facilmente citare? Pensare, nel senso più vero e profondo, non è quindi solo formulare idee e opinioni ma metterle alla prova, avere il coraggio del dubbio che può sfociare anche nella possibilità di modificare il proprio punto di vista, di ammettere di avere sbagliato, di saper rettificare. Di accettare cioè la complessità della quale spesse volte non riusciamo a coglierne l’ampiezza e tutte le sue sfaccettature.
Questa libertà di pensiero ci aiuta a familiarizzare con i nostri limiti. La democrazia vive di confronto tra opinioni diverse. Questo confronto, però, è reale solo se le opinioni sono fondate, argomentate, aperte al cambiamento. Quando invece le opinioni diventano dogmi, e il dialogo si trasforma in scontro ideologico, allora la democrazia si svuota dall’interno. L’informazione si trasforma in propaganda, la critica in delegittimazione, l’avversario in nemico. In una società così strutturata, anche il dissenso rischia di diventare sterile: non più espressione di pensiero, ma reazione emotiva, urlo rabbioso che cerca visibilità più che trasformazione.
Il pensiero critico, forse è bene ricordarlo, non coincide esattamente con il ‘diritto a dire la propria’. Non genera una semplice opinione soggettiva. È la capacità di valutare con autonomia, di confrontarsi con i fatti, di costruire un pensiero fondato. È un esercizio intellettuale e morale. Richiede il coraggio di uscire dagli automatismi, dalle logiche di appartenenza, dalle scorciatoie della polarizzazione. Il coraggio, appunto, di servirsi della propria intelligenza.
Una società che rinuncia al pensiero critico finisce per abituarsi all’arbitrio, accettando passivamente le narrazioni dominanti, qualunque esse siano. Questa urgenza oggi è resa più acuta dalle pervasività delle nuove tecnologie. L’intelligenza artificiale — grazie alle sue straordinarie potenzialità — pone all’umanità interrogativi complessi su verità, creatività, lavoro, conoscenza, diritti e libertà. L’uomo deve saper accettare la sfida con l’innovazione tecnologica ma deve farlo evitando il rischio che avvenga una pericolosa inversione tra mezzi e fini. Perché se la tecnologia diventa un fine e non un mezzo, l’umano si candida a subordinarsi al dominio delle macchine.
In questo senso rischia di apparire profetico il concetto di ‘dislivello prometeico’ uomo-macchina del filosofo e scrittore Gunther Anders (‘L’uomo è antiquato’ del 1956). Attualizzando quel pensiero potremmo amaramente constatare che ad una crescita esponenziale del potere degli strumenti della tecnica pare non corrispondere una ‘Humanitas’ in grado di comprenderla, di metabolizzarla e di governarla a vero beneficio dell’uomo e dell’ecosistema. Anche nel caso dell’intelligenza artificiale è quindi sterile schierarsi semplicemente pro o contro: apocalittici contro integrati.
Occorre invece un pensiero più profondo, collettivo e personale. Serve la capacità di distinguere tra vera innovazione e mistificazione, tra progresso umano e manipolazione. Serve, in altre parole, una mente critica, allenata a porre domande, non solo a cercare risposte. Senza queste capacità personali e sociali, rischiamo di affidare scelte cruciali a logiche tecnocratiche, perdendo il controllo sul nostro futuro, verso la deriva del ‘transumanesimo’. Che fare, allora? Pensare in modo critico è un’attitudine che ciascuno di noi dovrebbe imparare a coltivare.
Ed è un agire individuale che però ha bisogno di stimoli, tempo e fiducia oltre che di un contesto sociale favorevole che lo incentivi, lo valorizzi e lo sostenga. Necessita di una società che lo promuova a tutti i livelli come un valore irrinunciabile: nelle scuole, nei media, nelle relazioni quotidiane, nel rapporto cittadini e istituzioni. Un lavoro immane ma irrinunciabile perché è in gioco il nostro destino.
Come ha scritto Noam Chomsky, ‘il pensiero critico è la chiave per comprendere il mondo e non esserne vittime’.
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