L'ANALISI
TEATRO E CINEMA PROTAGONISTI. IL VIDEO
05 Dicembre 2025 - 05:20
CASALBUTTANO - Amanda Sandrelli sarà Caterina, l’indomabile bisbetica shakespeariana, donna che non ama essere sottomessa, ma destinata a capitolare, almeno in parte. In scena domani alle 21 al Bellini questa Bisbetica domata si avvale della riscrittura drammaturgica di Francesco Niccolini e della regia di Roberto Aldorasi. È una bisbetica nostra contemporanea, comica sì, ma con risvolti neri e dolorosi.
«È un testo strano, molto strano. È una farsa, sì, una commedia, ma dentro questa farsa c’è una linea drammatica forte, inquietante, che riguarda Caterina e Petruccio. Tutti quando dicevo: ‘Faccio la Bisbetica domata’ ridevano: ‘Ah ah’» - racconta Amanda Sandrelli - «Non è soltanto da ridere, per niente».
E invece?
«Invece c’è una violenza chiarissima. Nell’epoca di Shakespeare una donna che prendeva uno schiaffo faceva ridere. Oggi no. Non abbiamo dovuto aggiungere nulla: basta riportare ciò che c’è nel testo. Oggi lasciar qualcuno senza mangiare o senza dormire si chiama manipolazione. Tortura. E Caterina questo subisce».
Che donna è Caterina?
«È una donna che non vuole i piedi in testa. Non vuole essere venduta, non vuole che decidano per lei. E non usa alcuna astuzia ‘femminile’: niente ipocrisie, niente giochetti sociali. Sua sorella sì: lei ottiene tutto con la strategia e il quieto vivere. Caterina no. E non è credibile che una così, all’ultima scena, diventi improvvisamente docile. La sua ‘resa’ è frutto della violenza che subisce. È spezzata, non domata».
Che tipo di lavoro drammaturgico ha fatto con Francesco Niccolini?
«Niccolini ha rispettato il verso, usando una rima libera per tutta la parte farsesca, ma la rima scompare quando Caterina e Petruccio restano da soli. È come se si aprisse una porta sulla stanza vera, dove non c’è più niente da ridere. E lì risuonano frasi che conosciamo fin troppo bene: ‘Era tanto educato, salutava sempre…’. Le frasi che sentiamo dopo ogni femminicidio».
Come ha affrontato l’aspetto comico, dato che oggi non si ride più sugli schiaffi a una donna?
«La farsa resta, ma la violenza è percepita diversamente. E poi Caterina stessa è violenta: è brusca, sgraziata, alza le mani per prima. A volte mi chiedono se cerchi l’amore. Forse sì, come tutte. Ma non al prezzo della schiavitù. Lei tiene lontani gli uomini così, finché non arriva Petruccio».
Fra Caterina e Petruccio c’è anche una tensione erotica?
«Shakespeare nasconde sempre dei doppi livelli. Sì, qualcosa c’è. Ma è una trappola anche quella. L’amore per una donna dell’epoca era pericoloso, poteva distruggerti. E purtroppo lo è ancora oggi: quando ti affidi, se sbagli partner, rischi la vita. Per questo dico sempre: indipendenza economica e affettiva. Sono fondamentali».
Il finale è durissimo. Perché non cambiare il destino di Caterina? Perché non darle una rivalsa esplicita?
«Ne abbiamo parlato. Ma un finale liberatorio sarebbe falso. La realtà non funziona così. Preferisco quel gelo che sento in platea nell’ultima scena: un silenzio che si taglia col coltello. Gli applausi arrivano, ma ghiacciati. E questo significa che qualcosa è passato».
Per lei il teatro deve sempre avere un senso?
«Sì. Non necessariamente politico, ma un senso sì. Se no non vale la pena farlo. Shakespeare ti porta sempre nel presente: basta scavare. E il teatro non fa capire, fa sentire. Il teatro passa dal corpo, non dalla testa».
Eppure il pubblico ride.
«Sì, e deve farlo. La farsa c’è e resta. È solo la linea oscura che nel finale emerge come uno schianto. E la risata si ghiaccia».
Negli ultimi anni fa quasi solo teatro. Perché questa scelta?
«Perché mi piace di più. Mi dà più gioia, più senso. Non ho escluso cinema o televisione, se arriva qualcosa di bello lo prendo. Ma il teatro è casa. Finché posso farlo come lo faccio ora, sono felice».
Essere figlia di Stefania Sandrelli e di Gino Paoli ha pesato nel suo percorso?
«Moltissimo. Io avrei voluto fare la psicanalista, per non avere un nome addosso. Per anni mi sono sentita privilegiata senza averlo meritato. Finché non è arrivato il teatro. Quando qualcuno aspetta fuori dal camerino per parlarti, non per il tuo cognome, ma per ciò che hai fatto, capisci che il rapporto è con te. E lì ho iniziato a fidarmi del mio lavoro».
Il suo debutto in 'Non ci resta che piangere' resta iconico. Quanto è contata la fortuna?
«Tantissimo. Mi hanno scelta perché funzionavo per il ruolo, non per il nome. Quel film è stato un treno che passa una volta. Me lo tengo stretto, sapendo che il nostro mestiere è metà costruzione e metà fortuna».
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