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Le vite di sfasulati tra sogni e poesia

Storie e racconti sul senso della finitudine nello stile unico di Remo Rapino

Paolo Gualandris

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pgualandris@laprovinciacr.it

03 Dicembre 2025 - 05:30

CREMONA - «Il termine gergale la scortanza, con la t perché con la d significherebbe dimenticanza, è come dire ciò che rimane, il residuo che spesso usano i contadini nei mercati quando si va tardi a fare spesa e sei arrivato alla scortanza, quindi non c’è quasi più niente. È un concetto molto ampio che può riguardare qualsiasi aspetto del nostro vissuto».

INFELICE DI NOME E DI FATTO

La scortanza’ è un dialogo sulla finitudine che Remo Rapino ci regala con il suo stile unico, fatto di racconti di personaggi che scrivono sulla loro vita come parlano, senza mediazioni colte, con la sagacia e l’immediatezza dei semplici. Rapino, che con il suo modo di raccontare è arrivato a vincere un premio Campiello a dimostrazione che la letteratura è viva e vitale quando è sincera, stavolta fa parlare Rosinello Capobianco, «infelice di nome e triste di fatto». Un dialogo del protagonista con se stesso, ma anche con tanti altri, voci che lui coinvolge. Un racconto, come spiega lo scrittore nella videointervista con Paolo Gualandris, nato anche grazie a «un grande poeta che non c’è più, Paolo Bertolani: chiude ‘Le feste’ dopo una serie di immagini con la frase ‘figurati che passa anche la vita’. Insomma la vita come una festa, poi passa tutto, anche la stessa vita. Rosino ha nel nome infelice il suo destino e cerca di fare quante più cose per dare senso ai suoi giorni». È uno sfasulato, si direbbe a Napoli, un povero Cristo che s’arrabatta senza riuscire a uscire dalla truscia, l’indigenza.

TRA VERITÀ E IPERBOLE

«Come i miei altri personaggi, vive ai margini della società e in qualche modo cerca di entrarci, però è difficile che ciò avvenga e allora tutte le avventure si accavallano per dar senso a quel nome che non ha senso». Lui e gli altri si ritrovano per raccontarsi storie un po’ vere, un po’ inventate, un po’ accresciute. Arricchendole con ‘pettilarie’, cioè pettegolezzi e maldicenze. Seduto alla Fontanella, Rosinello conta le mattonelle e mette in fila i ricordi, belli e brutti. Racconti di seconda e terza mano, frammenti di vite sfiorate, echi di favole, di sogni, di preghiere: l’illustre mastro Nicola Trabaccone, che gli ha insegnato il mestiere della rilegatura, Giacomino Tiracchia, che leggeva Verga in mezzo al suo campo di girasoli, Cenzino tornato dall’America mentre Rosinello ha potuto solo sognarla, Libbò che parlava solo per proverbi e Ginetta Petrosemolo con la sua gonna a fiori, a cui Rosinello ha strappato qualche bacio di straforo e che forse, se avesse avuto un po’ più di coraggio e fosse stato più ‘spaccamelelle’, cioè spaccone, avrebbe potuto essere il suo grande amore. Si inanellano così i ricordi e i racconti, brandelli di vite leggere con tutte le loro piccole e grandi disperazioni, il loro carico di desiderio, gioia e dolore, le cose volute e mai avute, quelle sopportate e quelle assaporate fino alla fine, come l’ultima goccia nel bicchiere prima che la taverna chiuda. Storie che non ti fanno sfastognare, annoiarsi. La voce inconfondibile di Rosinello aggiunge l’ennesimo tassello a quel paesaggio in cui ogni frammento può contenere stelle, lune, pianeti, galassie, e dove l’atto dolcissimo e doloroso del ricordare è una mano tesa, un dono fraterno, un canto che scoraggia la morte e strappa la promessa di un racconto eterno. «È un po’ un libro sui sogni mancati - riassume Rapino -. Ecco, direi che sia questa l’essenza di tutto, la speranza sua e di quelle delle vite dei suoi compagni di viaggio».

SUL PALCO DELLA STORIA

C’è in loro anche una certa cattiveria, quella di chi vive ai margini. «Un concetto di marginalità tratto dalla Storia, materia che ho insegnato per tanti anni: ci sono anche queste persone, gli smarginati, gli sfasulati e non solo i grandi personaggi, una scenografia dove si raccolgono come su un palcoscenico attori che vanno vengono, discutono... però alla fine si vogliono anche bene». Un po’ come avviene nelle commedie di Eduardo, cui Rapino rende un personale tributo. Fondamentalmente fanno riflessioni sulla vita, molto spesso tutt’altro che banali.

OGNI METAFORA È POETICA

«A pensarci bene, l’umanità da molto tempo mi pareva più incattivita e dal cuore marcio», dice uno di costoro. «Da un punto di vista storico - sottolinea lo scrittore - c’è questa attenzione a mettere in luce la marginalità delle persone che meritano uno spazio perché ognuno in qualche modo, come diceva Jorge Luis Borges, anche in un attimo solo della sua vita è il sale della terra. Una visione filosofica del quotidiano». Quelli di Rapino sono personaggi reali «che spesso ho conosciuto e che mi hanno raccontato storie altre. Su questo reale si va poi a innestare l’immaginario perché la scrittura deve partire dal reale, almeno per me è così, poi con l’immaginario diventa qualcosa di più». Il linguaggio è coerente con i personaggi, ne rappresenta l’anima, le espressioni dialettali li definiscono. Ed ecco che alla fine lo scrittore ha inserito un glossario con quattrocento termini utilizzati in un racconto misto fra italiano e dialetto, il cui timbro finale è la musicalità, la rotondità delle frasi. Una ricerca linguistica affascinante ma faticosa. «Mi ha aiutato in questo senso il fatto che da sempre, da quando ero ragazzo, in quartieri popolari, ho utilizzato il dialetto come forma di comunicazione. Probabilmente solo a scuola parlavo in italiano. Un’espressione dialettale ha in sé qualcosa di immediato, dice molto in poco. Ha un’anima, una grande carica metaforica. E ogni metafora è una poesia, come diceva lo scrittore e critico Gilbert Keith Chesterton».

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