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Bastì bastù... E poi tutti a nanna

Il cremasco Nichetti riscopre le storie raccontate la sera nelle stalle. Venti fiabe della tradizione (con traduzione a fronte) illustrate da studenti

Paolo Gualandris

Email:

pgualandris@laprovinciacr.it

28 Dicembre 2022 - 05:10

CREMA - È sera, la stalla si anima di persone oltre che animali, la famiglia si riunisce. Grandi e piccoli portano la scodella con la minestra e qualche pezzo di pane o di polenta. Per gli adulti è il momento per riflettere sul lavoro appena svolto e per programmare quello di domani; per le donne l’occasione per cucire i panni strappati e per altri piccoli lavori; per i vecchi il tempo del racconto ai bambini sdraiati sulla paglia. ...«Gh’èra ’na olta...». E la fantasia dei più piccoli vola. Fino al momento di andare a dormire. É facile capire che è arrivato, è quando il cantastorie inizia la filastrocca «Bastì bastù, ga n’èera amò ’n bucù....».

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Un’atmosfera popolare e contadina vissuta fino a mezzo secolo fa in ogni regione d’Italia, ma che per il cremasco significa una tradizione popolare particolare: quella delle pastoce. Ora Andrea Nichetti, laureato in Lingue e letterature straniere e studente di Scienze antropologiche ed etnologiche all’Università di Milano Bicocca, la ricostruisce nel libro «Le fiabe delle stalle, le pastoce».

Ne parla nella videointervista per la rubrica «Tre minuti un libro» online da oggi sul sito www.laprovinciacr.it. Nel volume, venti fiabe in dialetto con traduzione in italiano a fronte e i disegni degli studenti della scuola Vailati a corredarle.

«Le pastoce sono una tradizione di fiabe raccontate nel territorio cremasco soprattutto in ambito contadino, in cui si narravano le condizioni di vita quotidiana con l’intento di insegnare le regole di vita ai più giovani». Importante anche l’operazione di recupero del dialetto che non è più, per citare l’Enciclopedia Treccani, variante linguistica dei ceti bassi e simbolo di ignoranza, ma risorsa comunicativa in più da preservare. Un arricchimento e non un impedimento.

«Credo di essermi dato a questa operazione proprio per volere ridare dignità alla ‘nostra’ lingua, la vulgata del popolo, che è stata marginalizzata in quanto considerata rozza e ignorante, sinonimo di produzione scadente. Invece ci sono racconti di grande profondità, di vita, di ampio respiro. Anche con questo libro è stata fatta un’operazione di preservazione del dialetto per poterlo insegnare ai più giovani certo, ma anche per per poterlo far ritrovare a chi già lo conosce. E quindi portiamo il lettore a ritrovarsi in un certo senso in un ambiente casalingo».

La parte pedagogica è preponderante, «era importante che il messaggio alla fine venisse colto. Il finale, poi, introdotto dal classico ‘bastì bastù...’ aveva una valenza doppia: serviva a dare il senso morale della storia narrata, ma anche a tagliare il discorso, perché significava che era arrivata l’ora di chiudere il racconto e di andare a dormire». Presenza fissa di molte storie cremasche è la Gattacornia dal Mumbel (Mombello: località alle porte di Milano in cui si trovava l’infame manicomio in cui venivano rinchiusi i matti definiti agitati): «Penso che sia il ‘personaggio’ più famoso per chiunque sappia queste storie. Anche molti dei ragazzi a cui abbiamo narrato le pastoce perché le illustrassero conoscevano questo essere mitologico del bestiario fantastico cremasco, ma la cui presenza si allarga oltre il nostro territorio provinciale, per arrivare a toccare le sponde di quello bresciano e bergamasco. Si tratta di un gatto che a dispetto delle stesse parole che recitano ‘sènsa còrgne e sènsa pel’, pare fosse dotato di un paio di lunghe corna, ma privo, appunto, di pelle. Una visione raccapricciante che doveva servire a provocare sconcerto nell’immaginazione dei piccoli più refrattari a ubbidire ai genitori. Ma la tradizione vuole che la Gattacornia, in realtà, non abbia mai fatto del male a nessuno e che il suo unico scopo sia tenere i bambini calmi e l’unica cosa che può fare è il solletico con le sue grandi corna».

Nichetti, come detto, ha avuto la collaborazione di ragazzini cremaschi per le illustrazioni. «Li ho trovati lievemente spaesati per certi versi, ma che cercavano di adattare la loro conoscenza personale a un patrimonio che non gli apparteneva. Ho ricevuto, per esempio un disegno relativo al racconto in cui i protagonisti sono due ragazzi sono stati raffigurati in jeans e con pantaloni di una nota marca sportiva. Hanno cercato, insomma, di attualizzare un loro patrimonio di esperienza, di riempire il vuoto che c’è tra loro e le due o tre generazioni precedenti. Hanno contribuito anche studenti stranieri, che ricollocato nel loro immaginario fantastico derivante dalle storie di casa loro. E questo è una riferimento estremamente interessante che vorrei vorrei indagare più a fondo».

Ma torniamo alla stalla, ai vecchi che raccontano e ai bambini che ascoltano rapiti e, a volte, impauriti... si sente l’eco delle vicende di Giuanì da fer (Giovannino di ferro), de Al bosch da la Babilonia (il Bosco di Babilonia), dell’Üzèl da la piöme d’or (L’uccello dalla piume d’oro) di Pomo bel Pomo, di Ol diàol e l’urtulà (Il diavolo e l’ortolano) ... e sullo sfondo i gridolini dei più piccoli. E la filastrocca «Bastì bastù...» che chiude il sipario.  

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