L'ANALISI
07 Settembre 2025 - 05:10
In quel tempo, una folla numerosa andava con Gesù. Egli si voltò e disse loro: «Se uno viene a me e non mi ama più di quanto ami suo padre, la madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo. Colui che non porta la propria croce e non viene dietro a me, non può essere mio discepolo. Chi di voi, volendo costruire una torre, non siede prima a calcolare la spesa e a vedere se ha i mezzi per portarla a termine? Per evitare che, se getta le fondamenta e non è in grado di finire il lavoro, tutti coloro che vedono comincino a deriderlo, dicendo: ‘Costui ha iniziato a costruire, ma non è stato capace di finire il lavoro’. Oppure quale re, partendo in guerra contro un altro re, non siede prima a esaminare se può affrontare con diecimila uomini chi gli viene incontro con ventimila? Se no, mentre l’altro è ancora lontano, gli manda dei messaggeri per chiedere pace. Così chiunque di voi non rinuncia a tutti i suoi averi, non può essere mio discepolo».
(Lc 14,25-33)
È come se salissimo su una montagna: tappa dopo tappa, passo dopo passo. Ma il salire per sua stessa definizione non è sempre soave, sereno. Implica uno sforzo, spesso ripetuto nel tempo e comporta tappe di ristoro e nuove decisioni di ripartenza. Qualcosa del genere sembra accadere nel Vangelo di Luca e nelle pagine che stiamo scorrendo nella seconda parte di questo tempo estivo.
Al cuore di tutto sta sempre una preoccupazione che potremmo definire “formativa”: Gesù parla a chi è interessato ad approfondire le sue parole, a giocarsi per qualcosa che ha intuito essere decisivo e forte (il fascino del Regno, diremmo noi). Il maestro ha mostrato segni eloquenti che per certi versi hanno attirato l’attenzione verso ciò che è affrontato con scandalo o rimozione, verso ciò che è considerato maledetto e spacciato, verso ciò che è visto come speranza anche per gli ultimi.
Mostrare certi segni, dire certe parole ha come innescato un movimento, ha attratto curiosità ed ha scoperchiato bisogni autentici. Ma tutto questo non basta. Serve che quegli insegnamenti e quegli eventi di liberazione dicano di più ed arrivino a rinegoziare anche il cuore di chi è venuto a sapere della loro esistenza. Ricorderemo sicuramente la porta stretta di qualche settimana fa: occorre passare da lì. Non solo seguire, ma passare, come atto volontario di un desiderio più grande di libertà, quasi di leggerezza rispetto alle zavorre della vita.
Ricorderemo anche la logica dell’ultimo posto o l’accusa di stoltezza rivolta al ricco cui, a sua insaputa, sarà tolto l’unico bene prezioso, inestimabile e non acquistabile su nessuna piattaforma commerciale, la vita. Occorre prendere le distanze dalle false certezze, non accontentarsi mai dei muri che sembrano custodire la tranquillità conquistata, come un forziere che è tale solo se ben chiuso e impermeabile. Ora quelle lezioni di vita, quelle pretese anche difficili e paradossali si tingono di colori cupi. Gesù chiede alternative drastiche, capaci di non fermarsi nemmeno davanti agli affetti più cari. E non perché non contino nulla, ma perché giustizia e verità non possono venire manipolate per nessuna ragione, non possono subire il ricatto e la deformazione opportunistica, nemmeno entro la cerchia più sacra, quella familiare.
Detto in altri termini: la proposta evangelica insegna ad amare, perdonare, dare anche la vita… tutto nella libertà. Almeno come orizzonte, come prospettiva. Poi potremo inciampare, avere dubbi, fare anche qualche retromarcia di troppo… ma la linea è tracciata. E si chiama croce. Ma che cos’è la croce per l’evangelista che sta scrivendo?
Tutti la associamo alla morte cruenta di Gesù, quella destinata agli infami e agli schiavi. Gran parte del nostro immaginario religioso, diventato poi anche artistico e culturale, da sempre ci ha messi a contatto con la terribile impressione di una tortura inflitta in modo sadico e di sofferenze indicibili, che oggi potremmo ritrovare in qualche corsia di ospedale o in qualche biografia di abbandono e sfruttamento.
Il mondo è sempre stato pieno di croci! Gesù però non parla solo della croce come fine dell’esistenza, come supplizio o, peggio, pagamento per un po’ di felicità. Intende la croce nella sua fecondità, nel suo essere strumento per Dio di nuova nascita e progresso. Ecco perché insiste sull’essere seguito: prendere e seguire, ovvero entrare nella medesima logica di dono che consuma, nel senso dell’investimento e della speranza, tutta una esistenza, con il suo tempo, le sue risorse, la sua identità.
E bisogna infine fare i conti, come un impresario edile che deve coscienziosamente produrre un preventivo o come un sovrano ingaggiato in una guerra che mette in campo forze impari. Perché con il Vangelo si intraprende un cammino allo scoperto, serio e vero, misurabile non per la bravura di chi lo attraversa (la sua prestanza sportiva o la sua resistenza), ma per il desiderio di diventare ciò che Gesù ha promesso. A tal punto che anche i beni materiali, oggi indicatore eloquente di chi io sia, perdono valore.
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