L'ANALISI
24 Agosto 2025 - 05:05
Come un faro nella notte, la porta stretta mostra la via
Dal Vangelo secondo Luca
In quel tempo, Gesù passava insegnando per città e villaggi, mentre era in cammino verso Gerusalemme. Un tale gli chiese: «Signore, sono pochi quelli che si salvano?». Disse loro: «Sforzatevi di entrare per la porta stretta, perché molti, io vi dico, cercheranno di entrare, ma non ci riusciranno. Quando il padrone di casa si alzerà e chiuderà la porta, voi, rimasti fuori, comincerete a bussare alla porta, dicendo: “Signore, aprici!”. Ma egli vi risponderà: “Non so di dove siete”. Allora comincerete a dire: “Abbiamo mangiato e bevuto in tua presenza e tu hai insegnato nelle nostre piazze”. Ma egli vi dichiarerà: “Voi, non so di dove siete. Allontanatevi da me, voi tutti operatori di ingiustizia!”. Là ci sarà pianto e stridore di denti, quando vedrete Abramo, Isacco e Giacobbe e tutti i profeti nel regno di Dio, voi invece cacciati fuori. Verranno da oriente e da occidente, da settentrione e da mezzogiorno e siederanno a mensa nel regno di Dio. Ed ecco, vi sono ultimi che saranno primi, e vi sono primi che saranno ultimi».
(Lc 13,22-30)
Molti conservano l’impressione che le cose della religione abbiano uno scopo rassicurante. Nella storia del pensiero anche recente da diverse parti si è sollevata l’obiezione che le pratiche religiose siano in realtà codici di consolazione e le forme cristallizzate delle chiese, delle tradizioni, delle formule da ripetere… altrettanti bastioni in cui rifugiarsi. Un rischio, questo, da cui non è rimasto immune nemmeno il cristianesimo: e la storia ne riporta puntualmente notizia.
I Vangeli, però, raccontano un’altra storia.
Al loro cuore sta sempre una inversione, uno scarto rispetto alla mentalità anche religiosa che, come insegna tutta la grandiosa narrazione biblica, è esposta al rischio dell’idolatria. Gesù è portatore di un messaggio di liberazione che non lotta contro Dio, non si affranca dalla sua paternità; al contrario la riscopre come quel legame essenziale che potremmo paragonare all’ossigeno: anche quando non ce ne accorgiamo, anche quando inquiniamo con pratiche discutibili la nostra respirazione, è grazie a quell’ossigeno, alla sua disponibilità puntuale e quasi scontata che noi possiamo restare in vita. Un legame prezioso, insuperabile, come quello che per Gesù gli esseri viventi, la creazione, ogni donna ed ogni uomo si ritrovano ad avere nei confronti di Dio. Questo legame non può essere imbrigliato da un codice, non sta relegato in una bottiglia. Dio non è il genio di una improbabile lampada di Aladino che occorrerebbe sfregare e comandare. Lui è protagonista di una inversione di logica formidabile. E Gesù lo ricordava ai suoi connazionali, giustamente devoti alla Torah e al suo essere per gli Ebrei fonte di vita; ma lo ricorda anche ai credenti di oggi, perché il suo messaggio ha la pretesa di navigare nella storia e non subire la consunzione delle cose solo vecchie… da dimenticare… da rottamare. Vuoi cercare il sentiero della vita? Non bastano le etichette o le appartenenze, nemmeno è una questione di intelligenza o, peggio, di titoli di studio: serve uno “sforzo”, un passaggio per una porta che è sempre un restringimento. Non tutto ci potrà passare.
Occorrerà lasciar perdere qualcosa, varcare la soglia con maggiore essenzialità e leggerezza, sfrondare, tagliare, liberarsi da codici maniacali. A ben pensarci la vita stessa, per chi non la vuole vivere solo come accumulo di cose o cava da cui drenare qualunque beneficio, è una immensa lezione di essenzialità: i nostri caratteri, le nostre aspettative, il nostro attaccamento alla vita e alle sue sicurezze sono progressivamente smussati, ripuliti, ricondotti alla verità spesso nuda della condizione creaturale. Ma il nostro “io” spesso rimuove, costruisce grattacieli sulla sabbia, inventa impalcature di difesa.
Ed ecco allora che ha ragione Gesù nel ricordarci quella porta stretta e quella scelta di giustizia (la giusta misura nelle cose, negli affetti, nel tempo…) che, sola, può orientare alla vita piena. La minaccia dell’inferno, ovvero del fallimento dell’esistenza perché troppo sprecata, drenata, insterilita…, non è retorica. Ce lo possiamo immaginare nelle forme più svariate, dal fuoco dantesco al nulla di certe tradizioni orientali, ma l’inferno dello “stridore di denti” è una possibilità molto concreta e, si badi bene, non perché un Dio capriccioso debba riempire di brandelli umani luoghi di tortura, ma perché l’uomo ha il terribile potere di fallire. E, al contrario, vedere sorgere da lontano vite riuscite che non sono del suo giro, del suo codice, del suo rigido approccio alla vita. Una delle forme più terribili di fallimento, sembra ricordarci Luca in questo brano, si nasconde nelle appartenenze che non toccano, cambiano, trasformano il cuore: si può appartenere al corpo (anche della Chiesa), ma non al cuore e, dunque, sopravvivere immaginando di essere a posto, di aver mangiato e bevuto alla tavola giusta. Altro che certezze: qui tutto è rimesso in discussione e in gioco, perché anche le cose della religione hanno a che fare con la coscienza e non si possono parcheggiare nelle linee precise della sola dottrina. Sino all’inversione che Gesù ambienta alla fine dei tempi: quando, finalmente, si vedrà restituire dignità e luce a chi è in ultima posizione, relegato in fondo alla fila.
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