L'ANALISI
26 Luglio 2025 - 05:30
CREMONA - «Espressione e autenticità. Nella prima deve cogliersi la seconda, uno deve essere autentico per poter esprimere il proprio mondo poetico. E se poi si tratta di inni o di cantici, di cantate o di oratori, il rapporto con il testo e la scelta dei testi diventano fondamentali, perché è nel testo che devo già avvertire un colore e un'atmosfera musicale». Riassume così il senso della proprie opere il maestro Federico Mantovani, 56 anni, residente a Cingia de’ Botti, docente di Teoria musicale al Conservatorio di Mantova, compositore, musicologo, direttore d’orchestra e, dal 2003, direttore del Coro Polifonico Cremonese (oggi con un organico di una quarantina di elementi) fondato nel 1968 da don Dante Caifa. Lo incontriamo alla sede del Coro, in via Gioconda, nell'ex cappella interna del vecchio Ospedale dove i cantori si ritrovano per le prove.
Il 5 luglio scorso, nella chiesa di San Luca, è stata eseguita la sua ultima opera liturgica, l’Inno a Sant’Antonio Maria Zaccaria...
«L’Inno è nato su richiesta dei padri barnabiti Giorgio Viganò ed Emiliano Redaelli per la celebrazione; negli anni precedenti si eseguiva un inno di Federico Caudana. Ma i padri desideravano un testo basato sulle parole dello stesso santo, testo che abbiamo strutturato insieme. Dal punto di vista musicale si tratta di un inno popolare, e perciò a una voce (mentre quello a San Luca, più complesso, era a quattro voci). Il primo frammento - In nomine Domini. In tutto la carità ti muova! - nasce su un inciso melodico dello stesso padre Viganò, il resto l'ho composto io, con l’obiettivo di realizzare una cantabilità semplice ma non banale, perché è proprio degli inni liturgici l’essere semplici all’ascolto e alla riproposizione, ma sempre con una propria dignità musicale».
La sua innologia conta ormai diverse composizioni: oltre a quelli già citati, gli inni alla Santissima Trinità, a San Giovanni Battista, a Sant’Agata, il mottetto a quattro voci Sancte Michael, l’inno al Crocifisso, Io ti amo nell’aria in occasione della beatificazione di Bianca Benedetti Porro su testo di Davide Rondoni, che sarà replicato a Sirmione il 3 agosto, il Beate pauperum pater su testo di Marco Girolamo Vida nell’ambito della cantata Pater pauperum dedicata a Sant’Omobono...
«Il rapporto fra musica e liturgia mi ha sempre interessato, in linea con le indicazioni del Concilio Vaticano II. Occorre tenere conto che alcune composizioni sono per coro, più articolate, mentre altre sono destinate all’assemblea dei fedeli, e dunque ispirate da una semplice cantabilità, preferibilmente nella lingua del popolo. I primi inni sono stati quelli alla Trinità e a San Giovanni Battista, quando dirigevo il coro parrocchiale di San Giovanni in Croce. Altri sono nati rispondendo volentieri a richieste dei cori o delle comunità religiose e parrocchiali piuttosto che dell’Associazione italiana Santa Cecilia di Roma. La direzione del Polifonico mi ha dato un’ulteriore spinta, facendomi misurare con commissioni diverse e certamente più complesse; dunque ogni volta con registri espressivi differenti, ma cercando di operare sempre con libertà e perizia artistica, soprattutto quando mi confronto con imponenti organici strumentali e vocali. Penso a cantate come Pater pauperum, eseguita per la prima volta (1999) dalla Camerata di Cremona che me la commissionò, e poi ripresa con il Polifonico, e ancora La più bella avventura per i sessant’anni dalla morte di don Primo Mazzolari, Vergine Madre per i quattrocento anni di fondazione dell’Istituto della Beata Vergine, Con Te per l’anno della Fede, il Canto di misericordia per il Giubileo straordinario del 2015. Letizia d’amore su testo di Rondoni – con il quale avevo già collaborato per l’Oratorio Accendere attendere - ispirata all’Amoris laetitia di papa Francesco e composta su richiesta del vescovo Antonio Napolioni».
A proposito di lingua del popolo, predilige i testi in italiano?
«Dipende dal contesto. Ho anche composto diversi brani in latino: Magnificat, Tota Pulchra, Ubi caritas, Iuravit Dominus, Te Deum, cioè quelli più complessi per coro e orchestra, alcuni dei quali rivisti anche per coro e organo, oltre a brani contenuti in varie Cantate».
Dalla sua produzione musicale emerge un certo ‘eclettismo’, la capacità di armonizzare generi diversi, dalla musica antica a quella contemporanea, comprese le colonne sonore di alcuni film...
«Il mio ‘eclettismo’ di scrittura nasce dalle occasioni, dalle proposte. Non adotto un linguaggio radicale. Credo che un’opera non debba esaurirsi nella scrittura e nella tecnica in sé per poter comunicare. Senza mai tagliare i ponti con la tradizione. Quando ad esempio studio partiture e organici strumentali o preparo concerti con il Coro, che si tratti del repertorio polifonico o delle opere di autori classici o moderni, è inevitabile che mi immerga in stili e linguaggi musicali che poi mi rimangono dentro e affiorano anche inconsapevolmente nel momento in cui compongo».
C’è un’ispirazione spirituale che, in un certo senso, unifica i suoi lavori?
«Direi la ragione del cuore agostiniana e pascaliana. La ragione e il cuore, attingendo alla più profonda tradizione cristiana. Credo al sentimento e all’emozione profondi, incarnati, lontano da uno spiritualismo evanescente o da un sentimentalismo dolciastro. Manzoni diceva che il cuore umano è un ‘guazzabuglio’. Una volta domandai al grande musicista estone Arvo Pärt cosa significasse per lui comporre. Faccio mia la sua risposta: ‘Una continua lotta tra inferno e paradiso’».
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