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MONTEVERDI FESTIVAL 2025

Cecilia Bartoli rinnova il miracolo del teatro

Al Teatro Ponchielli commuove l’Orfeo ed Euridice di Gluck, un silenzio assorto precede la standing ovation

Giulio Solzi Gaboardi

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redazione@laprovinciacr.it

12 Giugno 2025 - 11:04

Cecilia Bartoli rinnova il miracolo del teatro

Il direttore Gianluca Capuano e Cecilia Bartoli ieri sera al Ponchielli (©Lorenzo Gorini). Sotto, il pubblico che ha gremito il teatro

ROMA - Tripudio! Gaudio! Giubilo! Si rinnova il miracolo di Santa Cecilia. Il teatro si veste di verde, e al suo ingresso appaiono composizioni floreali e splendide piante. Ponchielli tutto esaurito, carabinieri in divisa da cerimonia, abiti scuri. Il Festival non è ancora cominciato e già il fervore è alle stelle. Cecilia Bartoli è tornata a Cremona con i Musiciens du Prince diretti da Gianluca Capuano per l’Orfeo ed Euridice di Gluck, nella versione di Parma del 1769, proposta in forma semi-scenica.

L’Overtura è eseguita in piena luce, ma la scena, subito dopo, si apre, nel buio completo, con Euridice stesa al centro del palco, mentre il Coro intona il canto funebre entrando in scena illuminato solo dai lumi tra le mani dei coristi. Tutta la serata è una immensa lezione di teatro targata Cecilia Bartoli. Ossia: l’assenza di scenografia non è assenza di teatro, soprattutto quando in scena c’è un’artista come Bartoli. Cecilia ci riporta all’essenza di Orfeo. Un giovane — un semidio, forse, ma sempre un giovane — con le sue ingenuità, le sue debolezze, le sue passioni.

Si para gli occhi coi palmi delle mani, come fanno i bambini. Si copre gli occhi per non cadere nella tentazione di guardare Euridice, per non perdere il suo bene. La tenerezza vince e le mani lasciano passare lo sguardo. Basta un piccolo gesto per infrangere il sogno. E quello di Bartoli è un teatro di gesto, sguardi, espressioni, in cui il corpo è narratore insieme alla voce. Soprattutto, è un teatro di parola. Cesellata, scandita, brillante, scavata.

Ora leggera come una piuma, ora grave come piombo. Grande lezione anche di musica. E qui i maestri sono tutti. Bartoli, per prima, incantatrice e regina delle colorature. Capuano, che, compie un capolavoro di concertazione e direzione, tra filologia, amore e libertà. I Musiciens du Prince, esecutori eccellenti e sensibili. Si deve segnalare almeno la delicatezza del flauto traverso che dialoga con la voce di Bartoli a simulare un’eco straziante che risolve il tópos romantico con un tono melodioso di grande modernità espressiva. Il traversiere Pablo Sosa Del Rosario conquista definitivamente il pubblico col suo solo tra la terza e la quarta scena.

La discesa infernale appare poi aspra e tenebrosa, autenticamente dantesca. Ivi trionfa la tensione baroccheggiante di un inferno caldo e avvolto nelle fiamme. Un panorama ampliato dal riuscitissimo coro infernale: ora incisivo e demoniaco, ora languido e mellifluo. Capuano stacca tempi incalzanti, rafforzati da possenti sostenuti, vivaci accentazioni e intensi vibrati. E poi grande la prova dell’ensemble vocale Il canto di Orfeo, guidato da Jacopo Facchini, compie miracoli di sfumature: il coro finale è al limite del sussurrato, accompagnato dal suono in morendo dell’orchestra, finché tutte le luci si spengono, tranne i lumi tra le mani dei coristi. Il palco tace. Tace la sala, in un silenzio assorto che nessuno vuole spezzare, prima di esplodere in acclamazioni e boati, e una interminabile standing ovation.

L’applauso è generoso per tutto il cast, dove trionfa Mélissa Petit nel doppio ruolo di Euridice e Amore. Timbro morbido e vellutato, folgorante presenza scenica e grande padronanza della parola. Autentica allieva di Bartoli nel fraseggio, nel governo del palcoscenico, le due trovano una perpetua e fiammante intesa sul palco durante il loro straziante duetto, culminante nel lamento di Orfeo. La celeberrima aria ‘Che farò senza Euridice’, appena dopo la seconda perdita di Euridice, è esposta in un Allegro vivace con effetto straniante, e ripetuta in un daccapo appena sussurrato, quasi un sospiro che toglie il fiato.

Questa duplicità, autentico trionfo di teatro musicale, traduce efficacemente il fulcro drammaturgico dell’opera: nella sua vivacità emotiva di giovane amante, la reazione iniziale è agitata e scomposta — barocca — per poi ripiegarsi in un incupimento drammatico, una presa di coscienza che è un ritorno all’ordine — classicista. Dunque, il miracolo si è rinnovato: il teatro che esplode in ovazioni e grida. Qualcuno urla: «Bis! Daccapo! Santa!». E si può dire con certezza che a pochi sarebbe pesato risentire dall’inizio un’opera di così straordinaria varietà emotiva. È il teatro che sconvolge, che lascia senza parole, che fa sorridere per l’amore e piangere per la commozione. È il teatro degli affetti, direbbe Monteverdi. È, semplicemente, il teatro.

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