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STORIE DI RESISTENZA

Quell’eroe silenzioso che salvava i deportati

Marco Calugi ricorda il coraggio del nonno Giacomo Guindani, ferroviere di Torre de’ Picenardi

Barbara Caffi

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bcaffi@laprovinciacr.it

29 Aprile 2025 - 05:10

Quell’eroe silenzioso che salvava i deportati

Giacomo Guindani e l'atto di nascita del Comune di Torre de’ Picenardi

CREMONA - «Saluto mio nonno Giacomo Guindani, che durante la guerra liberò decine e decine di deportati dai treni diretti verso la Germania, lavorando in ferroviaria alla stazione di Cremona»: Marco Calugi, toscano di origine cremonese, dopo il silenzio di una vita, ha raccontato sui social la storia del nonno, eroe silenzioso. Ha scelto il 25 aprile, Calugi, per uscire allo scoperto, celebrando a suo modo gli ottant’anni della guerra di Liberazione, di quella guerra che ha saputo restituire all’Italia non solo la libertà e la democrazia dopo oltre due decenni di regime fascista, ma anche la dignità.

«Io stesso so molto poco di quello che ha fatto mio nonno, né lui né mia nonna hanno voluto dire nulla. È stata solo la curiosità di mia mamma, che all’epoca era una ragazzina, a permetterci di fare luce su quello che era successo - spiega Calugi -. Alla fine della guerra, a casa, sono arrivate diverse lettere di ringraziamento da parte di persone che si erano salvate grazie al nonno. Lettere che non ci sono più, sono state distrutte subito quasi sicuramente per paura di eventuali conseguenze».

Giacomo Guindani nasce a Torre de’ Picenardi nel giugno del 1898. È solo un ragazzo quando finisce sul Carso a combattere in fanteria. Sopravvive a quella che papa Benedetto XV ha definito «l’inutile strage», e possiamo solo immaginare i ricordi, il dolore e i lutti che accompagneranno Giacomo, ventenne alla fine della Grande guerra, per tutta la vita. Vita che in ogni caso va avanti. Guindani entra in ferrovia, si trasferisce a Cremona, si sposa. Nel 1924, con il numero di matricola 195132, viene promosso da manovale a manovratore: in pratica era addetto agli scambi e saliva e scendeva dai treni.

Vive male, malissimo gli anni della nascita del fascismo e l’instaurarsi del regime. «Da mio zio - ricorda ancora Calugi - ho saputo che era anarchico e che nutriva una grande simpatia per Giacomo Matteotti, l’unico che si era opposto a Mussolini in Parlamento e che questa opposizione l’ha pagata con la vita». Non si sa se Guindani frequenta altri antifascisti, se fa o meno propaganda. C’è una scheda a suo nome nell’elenco dei sovversivi della Questura custodito all’Archivio di Stato. Tuttavia non coincidono né la data di nascita né il nome dei genitori di Giacomo. Su questo si possono fare solo ipotesi, dall’omonimia a una svista di trascrizione fino alla perdita di qualche foglio o all’accorpamento di più documenti in un unico fascicolo. Se Giacomo Guindani è davvero quello ‘attenzionato’ dalla polizia dell’epoca, risulta ‘ravveduto’ nel 1933. In quell’anno si sarebbe anche iscritto al Partito nazionale fascista - la tessera era necessaria per lavorare - e poco dopo sarebbe stato radiato dal novero dei sovversivi. La presenza o meno tra gli ‘osservati speciali’ è tuttavia un dettaglio di poca importanza, che nulla toglie alle azioni eroiche - e silenziose - fatte da Guindani dopo l’8 settembre 1943.

È un ferroviere, si è detto. Lavora in stazione, ma dei treni, dei loro orari e dei percorsi sa tutto. Così quando anche da Cremona cominciano a passare i convogli carichi di deportati - militari prigionieri, ebrei, oppositori -, Guindani non si volta dall’altra parte. «Quando poteva - ricorda Calugi, appellandosi alle memorie familiari -, il nonno doveva azionare gli scambi e per far prendere al treno o una direzione o l’altra. Il treno doveva per forza rallentare e lui ne approfittava per aprire il portellone dell’ultimo vagone che era sempre poco sorvegliato. Poi rientrava come al solito, a piedi o in bicicletta. Se l’avessero scoperto lo avrebbero probabilmente fucilato sul posto, ma non ha avuto paura di rischiare la vita. Lo ha fatto finché gli è stato possibile, fino a quando non l’hanno denunciato».

A denunciarlo è un vicino di casa, i militi della Guardia nazionale repubblicana si precipitano nella casa di ringhiera di via Ghisleri dove Guindani abita con la moglie e i due figli, poco più che bambini. Buttano all’aria la casa, cercano prove della militanza antifascista di Giacomo. «So che c’erano dei manifesti o dei volantini o dei giornali - aggiunge Calugi -, ma erano nascosti nel sottofondo di un armadio e non sono stati trovati. Mio nonno però è stato arrestato lo stesso». Guindani è portato a Villa Merli, la sede dell’Ufficio politico investigativo dove la violenza è di casa. Lo tengono lì per tre-quattro giorni, un tempo che sembra infinito. Schiaffi, botte, calci, pugni e manganellate. Interrogatori uno via l’altro, minacce, ancora botte e tanta paura. Alla fine lo buttano in strada, mezzo morto com’è, la faccia gonfia, gli abiti stracciati e sporchi di sangue. «Mia nonna è andata a prenderselo, qualcuno l’avrà avvertita. Mia mamma e mio zio sono andati con lei ad aiutarla e in qualche modo l’hanno portato a casa - prosegue il racconto di Calugi -. Il nonno ha avuto delle lesioni permanenti ai polmoni da cui non si è più ripreso. Dopo la guerra è stato ricoverato due anni in sanatorio. Ed è morto giovane, nel 1958».

Anche in un’altra occasione Giacomo Guindani ha rischiato la vita. Infatti era in stazione il 10 luglio del 1944, il giorno del bombardamento. Le bombe americane, in tre diverse ondate, colpiscono non solo la stazione, ma anche porta Milano, l’arena estiva Auricchio, il mulino Rapuzzi, via Palestro. L’allarme suona alle 10.44 di quel ‘normale’ lunedì di guerra, ma è in ritardo e insieme al suono della sirena arrivano il ferro e il fuoco della devastazione, la polvere, le urla dei feriti che riempiono un silenzio irreale. «Il nonno non tornava, erano convinti che fosse morto - dice Calugi -. Poi, dopo diverse ore, mia mamma l’ha visto arrivare da porta Venezia, con la bicicletta a mano. Ogni volta che me lo raccontava si commuoveva, anche a distanza di anni. E anch’io mi commuovo quando ci penso».

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