L'ANALISI
15 Giugno 2024 - 11:24
CREMONA - È un Orfeo senza cetra, quello che ha aperto la 41ª edizione del Monteverdi Festival. Niente cetra, ma, sul finale, imbraccia una tiorba e suona le note della Toccata. Non il Cantore tracio dai mille poteri, che al suon della sua cetra e della sua voce soave muove le fiere, le querce e i massi, ma un Orfeo perso in se stesso, straziato dalla mancanza di un’Euridice che è l’unica vera ragione del suo canto.
Il regista francese Olivier Fredj si ispira più all’Orphée di Jean Cocteau che a Virgilio e Ovidio, più alla narrazione dell’Orfeo/Narciso che a quella del cantore magico del mito greco, e, in effetti, poco si allontana dall’Orfeo così straordinariamente uomo e così poco divino tratteggiato dal librettista Alessandro Striggio. Fredj rilegge il mito con un approccio contemporaneo. La frase che campeggia sul fondo nero durante la Toccata introduttiva dice tanto, tutto: «Il teatro è uno specchio».
Un Orfeo in cui tutto è falso, e che spiega il lieto fine posticcio del 1609 con Apollo e Orfeo che salgono allegramente in cielo dopo le varie sventure. «È solo un trucco», direbbe Jep Gambardella. La regia di Fredj coglie appieno la materia psicologica di quest’opera. Così, Musica e Apollo sono presentatori e artefici di una messinscena e tutti i solisti cantano nelle scene corali. Ed Euridice e Musica sono la stessa persona, perché ispirazione e risoluzione, fonte e meta del canto di Orfeo, privo di poteri senza questa donna dalla doppia anima che riesce a farlo sentire invincibile (Narciso, appunto).
Un taglio decisamente introspettivo e intellettuale, ma che funziona perfettamente nell’economia drammaturgica di Striggio. Perfettamente amalgamati gli esiti visivi: belle le luci di Nathalie Perrier, le proiezioni, incentrate sul tema degli occhi e del pianto, di Jean Lecointre, scene e costumi minimali ma efficaci nella resa teatrale, le prima di Thomas Lauret, le seconde di Camilla Masellis e Frederic Llinares. Le vere meraviglie di questa produzione, però, sono direzione e concertazione di Francesco Corti, che interpreta perfettamente il senso drammatico dell’opera, conferendole un sapore antico, essenziale e divinamente teatrale.
Tenebrosi gli atti infernali, con una scelta cromatica molto efficace tra predominio dell’organo e uso saggio dei timpani, si veda l’uscita di Messaggera alla fine del secondo atto e la chiusa del terzo. Il suono del Pomo d’Oro, sotto la direzione di Corti, è ricco di colori, antico e aristocratico. La riuscita musicale è anche merito di una forte coppia di protagonisti, entrambi vincitori del Cavalli Monteverdi Competition. Orfeo è Marco Saccardin. Solida voce baritonale, agilità nei passaggi di registro, bei gravi, ottima la tirata di Possente spirto, spiazzante in Tu se’ morta. A ciò si aggiunge una spiccata capacità recitativa. Jan Jiayu è Euridice e Musica.
Voce bellissima e nobile, piani a dir poco commoventi. Sugli scudi la prova dell’Apollo (nonché Pastore 4 e Spirito 3) di Giacomo Nanni, dal timbro possente e dolce. Struggente la Messaggera di Margherita Sala nell’annuncio della morte di Euridice. Potente il Caronte di Alessandro Ravasio. Ottima la coppia infernale di Paola Molinari (Proserpina) e Rocco Lia (Plutone). Bene i comprimari Laura Orueta (Speranza), Emilia Bertolini (Ninfa), Roberto Rilievi (Pastore e Spirito 1), Matteo Straffi (Pastore e Spirito 2), Sandro Rossi (Pastore 3). Monumentale per omogeneità e brillantezza del suono il Coro del Festival Cremona Antiqua preparato da Diego Maccagnola. Il Coro, infatti, riveste un ruolo chiave, chiudendo ogni atto con la sua parola collettiva. Un grande inizio con tutto esaurito e lunghi applausi.
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