L'ANALISI
VOCE DEL NOVECENTO
13 Marzo 2024 - 05:25
CREMONA - «Ombra che mi baci le labbra/e mi scendi sul corpo/come un lavacro d’acqua,/ombra che mi prendi la mano,/ombra che non mi sposi./Ricordo te/con la faccia sconvolta dai miei baci/e il tuo lungo destino/che non mi ha abbandonato».
Un amore fragile e disperato - come è spesso l’amore -, un amore evanescente, un amore di fantasma, un amore che diventa ombra nel ricordo. Un amore. Perché non si può non parlare d’amore quando si parla di Alda Merini.
Domani sera alle 21,30 su Rai1 andrà in onda ‘Folle d’Amore-Alda Merini’, una coproduzione Rai Fiction-Jean Vigo Italia diretta da Roberto Faenza e interpretata, tra gli altri, da Laura Morante. Ma a far risuonare la voce autentica della poetessa sono le sue parole, versi inediti donati ai lettori de «La Provincia» da Idia Brighenti, anche lei poetessa e che di Merini è stata amica sincera.
Insieme hanno condiviso molti momenti, lunghissime telefonate notturne, confidenze, lacrime e risate, visite e piccoli doni, l’inappartenenza al mondo che è propria dei poeti, il candore delle anime inquiete che conoscono il dolore e inseguono la felicità.
Alda Merini componeva di getto (e non sempre all’altezza di se stessa): un fiume torrenziale di parole che a volte annotava dove capitava e che a volte invece dettava agli amici, pronti ad accogliere quel flusso prezioso.
Idia Brighenti, nel corso degli anni e della lunga frequentazione, ha ricevuto in dono da Alda Merini molte poesie, poesie che ancora oggi sanno urlare la loro forza disperata.
Conosceva il dolore, Alda Merini. Era «nata il 21 a primavera», come aveva scritto in una sua celebre poesia, nel 1931. Ha avuto un’infanzia complicata, e a sedici anni il primo ricovero in una clinica psichiatrica, ‘malacarne’ che non sapeva adattarsi alle convenzioni.
Per anni dai manicomi è entrata e uscita - e allora il manicomio voleva dire elettroshock, camicia di forza, violenza - ha avuto amici, amori, amanti, due mariti e quattro figlie. Ha scritto molto, moltissimo. Pier Paolo Pasolini si dice «totalmente disarmato di fronte a tanta precocità, a questa mostruosa intuizione poetica».
La apprezzano Giacinto Spagnoletti, il primo a intuirne il talento, e poi Vanni Scheiwiller, Eugenio Montale, Giorgio Manganelli, suo grande amore, David Maria Turoldo, Luciano Erba, Salvatore Quasimodo, con cui ha una lunga relazione.
Sa trasformare il dolore - l’angoscia della mente, la sofferenza del corpo - in poesia, trasfigura la fede e la spiritualità in erotismo, vive un’ultima fase poetica immersa nel misticismo. La televisione la scopre in età matura e ne fa un personaggio. Non bella, non giovane, le labbra e le unghie pittate di rosso scarlatto, agghindata di lunghe collane e orecchini vistosi, la voce arrochita da sigarette a cui non ha mai rinunciato, Merini conquista il pubblico e diventa improvvisamente famosa.
La sua casa milanese in via Ripa di Porta Ticinese, al civico 47, è una piccola casa di ringhiera che si affaccia sul Naviglio grande. Si affolla di artisti e letterati, di gente che vuole conoscere la ‘poetessa dei Navigli’. Qualcuno la sfrutta, probabilmente. Qualcuno approfitta del suo candore bambino e della sua generosità.
La sua stanza è un intrico di vestiti gettati a terra, mozziconi, fogli, oggetti sparsi, lattine di Coca cola. Chi vuole, prende un rossetto e scrive il proprio numero di telefono o una frase sul muro. Lei dice che la polvere è «fatta di ali di farfalle sbriciolate: sono i pensieri che, dopo il volo, si fanno materia e come polvere rimangono a testimonianza; non spolverarla, cancelli la vita e i ricordi». Di ali di farfalla, in casa, ce ne sono tante, ma nessuno ci fa caso.
Vive ai limiti dell’indigenza, Alda Merini. Ogni tanto intervengono i servizi sociali e negli ultimi due anni di vita - muore il primo novembre del 2009 - le è concesso il vitalizio della legge Bacchelli. Ma quando vince dei premi, si trasferisce in albergo e spende tutto in pochi giorni.
È una donna libera, Alda Merini. E l’aura di follia che l’accompagna le consente di farsi perdonare. Partecipa spesso alle presentazioni di libri, agli incontri, e che siano grandi sale o piccoli circoli poco importa. È il lato pop della poesia, un’autrice cui chiedere autografi al firma-copie.
È sovente a Cremona e a Crema, mentre Soncino - dove era nato Ettore Carniti, il primo marito - le conferisce la cittadinanza onoraria.
L’amicizia con Idia Brighenti è durata quindici anni, interrotta dalla morte di Merini. Parole, confidenze, il riconoscersi in una sofferenza esistenziale. Lo specchiarsi nel pudore reciproco di continuare a darsi del lei dopo tanto tempo. Il vedere l’una nell’altra la forza disperata del mettersi a nudo in versi, il cercare riparo dietro le parole. Il dolore unisce, affratella. Senza filtri e senza difese, a volte con la rabbia di «un’ape furibonda», come si era definita la poetessa milanese. A volte, invece, con la dolcezza di un dono improvviso, di un’epifania, di un’ombra leggera che non ci abbandona.
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