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STAGIONE TEATRALE 2021/2022
05 Novembre 2021 - 20:45
Una scena de La città Morta
ROCCABIANCA - È solo il gusto per la sfida o c’è altro, nella decisione di un regista poco più che trentenne di affrontare La città morta di Gabriele D’Annunzio? Assistere a La città morta di Leonardo Lidi - visto alla Biennale di Venezia e stasera (6 novembre) in scena al teatro dell'arena del Sole di Roccabianca - impone questo interrogativo, la cui risposta è: non c’è altro, perché nella sfida c’è il tentativo di mettersi alla prova, di gestire una materia archeologica, di gestire un fallimento: la possibilità di riscrivere la tragedia, messa in atto da un D’Annunzio onnivoro che cavalcava con bulimia materiali, mode, linguaggi nel segno di un tutto comprendere, di un’opera totale, di una vita vissuta come opera d’arte. Leonardo Lidi fa della Città morta un divertito e straniato campo di prova della tenuta del suo essere regista e dimostra di essere un regista che sa il fatto suo, un giovane vecchio, giovane nell’energia, vecchio nel suo sguardo alla tradizione, una tradizione non polverosa, ma che è presente per necessità, per studio, per passione e amore del teatro che fa del testo un pre-testo.
Una sorta di gradinata da campo sportivo anni Cinquanta: l’archeologo Leonardo è Christian La Rosa che è anche la cieca Anna, quando indossa un paio di occhiali assolutamente buffi e improbabili; il poeta Alessandro che qui ha nome Gabriele (D’Annunzio) è Mario Pirrello, a metà strada fra Fonzie e Bobbysolo. Giuliana Vigogna è Bianca Maria, amata da Gabriele e da Leonardo, in una passione incestuosa che lo porterà all’uccisione rituale della sorella, sulla scorta della lettura appassionata di brani tragici di cui è puntellata la drammaturgia dannunziana. Tutto questo accade con divertita e divertente de-situazione dell’accadimento e di ciò di cui si parla, un gioco spiazzante che Leonardo Lidi rende con citazioni pop, con una strizzatina d’occhi a Grease e chiedendo – soprattutto a Christian La Rosa – una recitazione tutta di testa, un lavoro d’attore al limite della resistenza fisica/vocale, in una continua variazione di toni e modulazioni vocali che cercano invano di dare corpo e anima a un mondo che non c’è più. La fonte a cui si abbevera Bianca Maria, ma anche la tomba di Agamennone recuperata da Leonardo sono simulacri di un racconto evocato e che non trova corrispondenza scenica. In questo gioco di spiazzante comicità un po’ pop Leonardo Lidi ci sguazza e ha il pregio di portare con coerenza la sua lettura estranea della Città morta di D’Annunzio fino alla fine.
Viene da pensare – chissà se Lidi ne ha tenuto conto – ad Orgia di Pasolini messo in scena da Massimo Castri, un testo che il regista non amava, un autore a lui estraneo e che volle affrontare per sfida a sé stesso, ambientandolo in un surreale e un po’ inquietante e bucolico cimitero con al posto delle tombe dei letti, in una scenografia mozzafiato, firmata da Maurizo Balò. Suggestioni, forse, ma anche in quel caso la recitazione tesa e senza fronzoli sembrava dare corpo a un testo che bisognava della vocalità attoriale e della sua stravolgente semantica sonora per essere edibile, nel segno di un rito di vita e morte, perpetrano del segno di un sesso al di là del bene e del male.
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