L'ANALISI
09 Maggio 2020 - 09:17
Il filosofo Mauro Ceruti
di Nicola Arrigoni
CREMONA (9 maggio 2020) - Oggi si celebra la Festa dell’Europa, una ricorrenza che il liceo classico e linguistico Manin, scuola ambasciatrice del Parlamento europeo, vuole onorare con un incontro a distanza. L’appuntamento – che l’anno scorso si svolse nel Salone dei Quadri – quest’anno è per ovvie ragioni da remoto ed è fissato per questa mattina. Ad aprire l’incontro saranno le docenti del Manin, Francesca Di Vita e Rossella Russo insieme ai ragazzi ambasciatori del liceo cittadino. Dalle 11 alle 12,40 saranno tanti gli interventi, alla presenza del sindaco Gianluca Galimberti, degli assessori Maura Ruggeri, Luca Burgazzi, Rodolfo Bona e di Maria Carmen Russo. A parlare di Europa sono stato invitati l’economista cremonese Carlo Cottarelli, Davide Bonvicini, diplomatico presso la Ue ed ex studenti del Manin e il filosofo Mauro Ceruti. Le conclusioni saranno affidate a Barbara Formis. E sul binomio Europa e scuola elaborerà il proprio intervento il filosofo cremonese. «L’Europa è nello stesso tempo madre e figlia delle sue istituzioni educative, l’università e la scuola. Le ha inventate, ed è stata a sua volta inventata da loro – spiega Ceruti -. L’Europa ha creato l’Università nello spirito dell’unità nella diversità. Ha creato l’Università come luogo unitario di interfecondazione fra i saperi, molteplici, plurali. L’Università, a sua volta, ha creato l’Europa: ha creato le sue classi dirigenti, ha creato la sua faticosa ma irreversibile presa di coscienza dei diritti umani, ha creato i suoi progressi economici, sociali, scientifici, tecnologici, spirituali. E, in questo stesso spirito di unità nella diversità, l’Europa ha dato vita ai sistemi scolastici, quali condizione essenziale dei diritti dei cittadini, della convivenza sociale».
Eppure ancora una volta, anche in questa situazione di crisi, per l’Europa è difficoltoso trovare una comune strategia d’azione. L’universalismo dell’Universitas ha ceduto il passo ai particolarismi.
«Oggi, l’Europa rischia nuovamente la disgregazione: per il prevalere degli egoismi nazionali, dei localismi unilaterali, delle chiusure culturali, degli interessi di gruppo tendenti a cancellare il senso del bene comune. Si riattivano i paradigmi tradizionali della separazione e dell’isolamento. Si rigenerano le due malattie dell’Europa moderna: la pulizia etnica e la sacralizzazione dei confini».
Questa vocazione al localismo, nel campo del sapere e della formazione ha una sua declinazione specialistica che lei, insieme a Edgar Morin, non si stanca di denunciare.
«La scuola e l’università rischiano, a loro volta, la disgregazione sotto il peso della frammentazione, degli specialismi chiusi e incapaci di dialogare».
Qual è la causa di questa frammentazione dei saperi?
«Oggi esiste una spinta verso un adattamento eccessivo dell’università e della scuola europea alle esigenze sociali e professionali immediate. Questa induce a uniformare l’insegnamento e la ricerca alle domande economiche, tecniche e amministrative del momento, a conformarsi alle ultime ricette sul mercato, a ridurre l’insegnamento generale, a marginalizzare la cultura umanistica. Ma, nella vita e nella storia, l’iperadattamento a condizioni precostituite non è mai stato un segno di vitalità. Al contrario, è un annuncio di senescenza e morte, causate dal venir meno della sostanza inventiva e creatrice».
Che effetto ha avuto questa vocazione alla professionalizzazione specialistica sulla formazione?
«Oggi, un grande ostacolo all’educazione allo spirito europeo sta proprio nel modo in cui le informazioni, le conoscenze e le esperienze sono organizzate: sta nella loro frantumazione in tutti i vari stadi della formazione personale. Gli eccessivi specialismi frammentano i saperi, ostacolano la comprensione dei problemi e portano inevitabilmente alla deresponsabilizzazione. E con ciò alla crisi della democrazia e dei fondamenti della cittadinanza. Insomma portano alla crisi dello spirito europeo».
Questo concretamente come ha influito sulla scuola?
«È la mancanza di relazione, di passione educativa, non il virus, che mette in crisi la scuola. Sono le classi troppo numerose. I mancati investimenti, economici e di dignità. La mancanza di cultura di una classe dirigente che è diseducativa per come parla, prima ancora che per come agisce».
Viene da pensare che tutto ciò emerga in maniera drammatica sia per la scuola, che per la sanità. È come se l’eccessiva specializzazione ci stesse impedendo di vedere o abbracciare nella sua complessità, non solo la sfida alla pandemia, ma anche la visione del futuro che è insita nella vocazione educante.
«Lo vediamo drammaticamente nella situazione di crisi che stiamo vivendo. Il tempo della complessità sfida la scuola e l’università europee a riproblematizzare sè stesse. E a problematizzare il pensiero che si forma nelle università e nelle scuole. Il pensiero che collega deve prendere il posto del pensiero che separa. La rigenerazione dello spirito della paideia europea, fondato sul dialogo, ha a che fare con la nostra attitudine a organizzare la conoscenza, a far dialogare le nostre conoscenze. Si è creato un preoccupante divario fra i problemi che l’Europa deve affrontare nella sua nuova condizione planetaria, da una parte, e, dall’altra, le modalità di organizzazione delle singole conoscenze».
Tutto questo parte dal tempo della complessità che stiamo vivendo, da una globalizzazione che ci rende tutti stessi cittadini della terra/patria per usare una bella definizione di Edgar Morin?
«I problemi globali sono multidimensionali, transnazionali, mentre gli approcci conoscitivi prevalenti sono parcellizzanti, dividenti. Così, più i problemi diventano multidimensionali, più è difficile affrontarli, per la difficoltà a comprenderli nella molteplicità dei loro aspetti intrecciati. La grande sfida educativa è di iniziare a colmare questo divario, assai drammatico, rendendo il sapere adeguato alla complessità del contesto in cui esso dovrebbe dare i suoi frutti».
E tutto questo cosa ci deve indurre a fare?
«Unificare ciò che è diviso, isolato, frammentato è una sfida ineludibile per le istituzioni educative europee. Ma nel tempo della complessità, unità non può significare necessariamente omologazione, e diversità non può significare necessariamente separazione. Al contrario, sostenere e valorizzare le diversità è una via privilegiata per perseguire una maggiore unità e una maggiore coesione, nelle comunità locali, nelle nazioni europee, nell'Unione europea, nella comunità planetaria».
A livello formativo questa unità europea e planetaria come si potrebbe tradurre?
«I sistemi educativi europei sono ancora separati. Ciascuno privilegia in modo unilaterale la propria letteratura, la propria storia, la propria arte… nazionali. Senza concepire che ciascuna storia culturale nazionale si è potuta sviluppare solo nell’intreccio con le altre. Eppure attraverso i secoli, pur nei tempi più bui delle contrapposizioni fra stati europei, in un vortice storico si è creato uno spazio culturale unitario europeo, fatto di contributi provenienti da lingue culturali diverse. Uno spazio transnazionale e transecolare. Filosofia, scienze, spiritualità, idee politiche, lettere, poesia, romanzo, musica, pittura sono il fondo comune. In questo spazio culturale prende forma ciò che rende unica la cultura europea: un pensiero che si interroga costantemente e che problematizza la natura, l’uomo, la ragione, la fede stessa».
Dunque Europa e formazione vivono di un unico anelito?
«Lo spirito europeo, per essere alimentato, ha bisogno di passione educativa. E la passione educativa, per alimentarsi, ha bisogno dello spirito Europeo, dello spirito del dialogo, della problematizzazione, dell’amicizia».
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