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LE STORIE DI GIGIO

L’ex bancario stregato dalle note

Alberto Mattarozzi accordatore di pianoforti per i ‘grandi’ e restauratore

Gilberto Bazoli

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redazione@laprovinciacr.it

20 Ottobre 2025 - 05:25

L’ex bancario stregato dalle note

CREMONA - Certo, ci vogliono orecchio e diapason, ma anche passione e applicazione. Qualità che Alberto Mattarozzi, 68 anni, esperto accordatore e apprezzato restauratore di pianoforti, ha da vendere. L’allievo del leggendario Gino Nazzari, uno dei principali protagonisti della storia musicale di Cremona, è vicino a una svolta della sua lunga carriera dietro le quinte. «Lascerò il Conservatorio di Parma con cui ho collaborato per trent’anni tirando le corde dei suoi 55 pianoforti tra verticali, coda e gran coda. Un mestiere duro: i primi devono essere accordati due volte all’anno, quattro gli altri».

Continuerà invece a lavorare per il Museo del Violino e il Ponchielli oltre che al Teatro di Lodi.
Pensare che da giovane aveva imboccato una strada completamente diversa. «Uscito dalla ragioneria, sono stato per 3 anni in banca, ma non ne potevo più. Come Fantozzi — sorride —. Piuttosto di essere un peso per me stesso e per l’istituto di piazza Duomo, grazie al caso che mi aveva fatto abitare sopra il negozio di Nazzari in fondo a via XX Settembre, ero diventato amico di suo figlio. “Perché non vieni a provare da noi?”, mi ha chiesto. Ho accettato. Avevo 24 anni. Il primo giorno il falegname, Giancarlo Franchi, mi ha portato all’osteria La Piccola, un bel salto per un giovane che proveniva da un ambiente di impiegati».

Nelle sue vene scorrevano la predisposizione per la manualità, ereditata dal nonno paterno Battista, «un bravissimo intagliatore del legno», e l’amore per la musica. «Da giovane suonavo un po’ il sassofono, che allora andava di moda. Mi piaceva anche il jazz». Diciotto anni a fianco di un maestro come Nazzari.

«Mi mostrava le cose e io le rifacevo, guardavo e copiavo, senza spiegazioni particolarmente teoriche. Mi sono trovato benissimo da lui. In poche parole, era uno spasso, raccontava aneddoti esilaranti su pianisti internazionali di prim’ordine. Squillava il telefono — c’era ancora l’apparecchio fisso — e lui, a 80 anni e passa, dal fondo del cortile correva per andare a rispondere con uno scatto da centometrista. Vabbè che sotto il suo inseparabile grembiule marrone pesava 45 chili».

Sono stati loro, i Nazzari, a spingerlo a frequentare, all’inizio del suo apprendistato, la prestigiosa scuola Ibach, in Germania. «Ma dopo 5 mesi me ne sono andato, nella scala sociale gli italiani venivano prima solo di turchi e greci e dopo tutti gli altri, avevo un compenso di 300 marchi e ne pagavo 350 di affitto per le camera in cui vivevo: ho speso tutta la liquidazione del mio periodo in banca».

E così è tornato dov’era partito, in via XX Settembre, imparando sempre di più un’arte, antica e affascinante ma poco conosciuta, che gli ha fatto incontrare alcuni dei più grandi pianisti. Come, forse il più grande di tutti, Arturo Benedetti Michelangeli. «Il suo accordatore, Angelo Fabbrini, un nome che non ha bisogno di presentazioni, non poteva andare da lui, nella sua casa di Pura in Svizzera, e ha proposto al figlio di Nazzari, Luciano, e me di sostituirlo. Abbiamo lavorato per due giorni su tre pianoforti Steinway del maestro. Con noi è stato gentilissimo, anche se di poche parole. È grazie al suo interessamento se ho potuto frequentare uno stage di un mese alla Steinway di Amburgo, una fabbrica con una lista d’attesa di richieste, dalla Cina all’America, lunghissima».

Nazzari ha creduto da subito nell’ex bancario convertitosi alla tastiera. «Dopo un anno — un anno e mezzo mi ha spedito qualche volta ad accordare i pianoforti al Ponchielli prima dei concerti di musica classica, e sempre per la leggera o il jazz, che considerava meno impegnativi. Gli anni tra gli ‘80 e i ‘90 sono stati il clou dell’espansione pianistica, sia come vendite che come riparazioni». Appresi i segreti del mestiere, Mattarozzi si è messo in proprio.

«Oltre al mio orecchio, di cui mi fido molto, ho solo il diapason. Ci sono altri strumenti, come l’accordatore elettronico, ma non li utilizzo. Non perché sia contrario alle tecnologie ma perché ho imparato in questo modo. La macchinetta, simile a una piccola radio, è utile quando c’è un sacco di rumore di fondo. Un bravo accordatore, secondo me, dev’essere appassionato a far sì che i suoni diventino armonici. È un lavoro abbastanza lungo: un piano ha in media 200 corde e per accordarlo bisogna sentirle quasi tutte».

Facendolo per due volte prima dello spettacolo. «Il mattino, per un’ora, un’ora e mezza, e il pomeriggio quando, di solito, l’artista fa le prove; nel secondo caso il controllo dura di meno». Molte cose sono cambiate nel suo mondo. «In passato i pianisti arrivavano, spesso e volentieri, un paio di giorni prima dell’esibizione e ci tenevano a conoscere lo strumento mentre adesso può capitare che si presentino in anticipo di poche ore. Un tempo si lavorava insieme, soprattutto per l’intonazione del pianoforte, se doveva essere più dolce o più metallico».

Tanti, tantissimi i nomi incontrati anche quando ha aperto il proprio laboratorio a Castelverde. «Ho avuto rapporti abbastanza amichevoli con Michele Campanella, che è molto esigente; sono andato alla Scala, sempre per Fabbrini, con Alicia de Larrocha; ho parlato con Radu Lupu, un grandissimo che, a causa di un forte mal di schiena, pesava ogni tasto per verificare se corrispondeva alla sue esigenze. E ho conversato di musica con Paolo Conte, una persona molto simpatica. Non è falsa modestia, ma ho sempre tenuto ben presente questa distinzione: prima c’è il compositore, poi l’esecutore e, infine, l’accordatore».

Il momento di voltare pagina si avvicina. «A febbraio lascerò il Conservatorio di Parma, il mio incarico più importante. No, non significa andare in pensione. Semplicemente restringo la mia area di intervento. Vorrei dedicarmi di più al mio laboratorio e al restauro di pianoforti storici». Come quello Steinway ricoperto da un telo.

«Un modello unico nel suo genere. Apparteneva a un inglese, simpatizzante del fascismo, che ha fatto arredare in stile liberty la sua villa sulle alture torinesi, poi semi distrutta da un incendio e dove pare abbia girato un film Dario Argento, e ha voluto che anche il pianoforte fosse decorato, intarsiato in quel modo. È rispuntato in Liguria, in un albergo da ristrutturare. Io e il mio collega l’abbiamo riparato perché era in cattive condizioni».

Il talentuoso pianista iraniano Ramin Bahrami si è recato, con il direttore artistico del Museo del Violino Roberto Codazzi, a Castelverde e lo ha provato. «Ha detto che è bellissimo. In effetti, è così, sia dal punto di vista estetico che acustico». Dalle mani di Mattarozzi è passato anche, pochi anni fa, uno dei pianoforti, un altro Steinway, appartenuti a Lucio Dalla.

L’accordatore-restauratore ha vari progetti. «Mi piace molto scolpire il legno, ma il mio vero sogno segreto è un altro: saper suonare il violino». Sarà un caso, ma lo suonava anche quel piccolo anziano con il grembiule marrone e la cravatta ritratto nella grande foto di gruppo affissa alla parete.

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