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LA RIFLESSIONE

Giustizia: la ‘madre di tutte le riforme’ non produrrà alcun beneficio concreto

Separazione delle carriere: il rischio concreto è che si stia utilizzando una questione simbolica, ideologica, per mascherare l’incapacità — o forse la mancata volontà — di affrontare i veri problemi del sistema giudiziario italiano

Luca Puerari

Email:

lpuerari@laprovinciacr.it

26 Luglio 2025 - 11:31

Giustizia: la ‘madre di tutte le riforme’ non produrrà alcun beneficio concreto

Carlo Nordio e Giorgia Meloni

Mentre il governo e la sua maggioranza parlamentare proseguono con determinazione — qualcuno direbbe ostinazione — l’iter verso l’approvazione della riforma sulla separazione delle carriere tra magistratura requirente e giudicante, non si placano le critiche da parte dell’Associazione Nazionale Magistrati e di una significativa parte dell’opposizione. Il provvedimento, che modifica l’assetto costituzionale della magistratura italiana, viene presentato come la ‘madre di tutte le riforme’, destinata — secondo le parole della premier Giorgia Meloni — a «ridare dignità alla magistratura» e a «porre fine alla deriva correntizia all’interno del CSM».

Affermazioni forti, retoricamente efficaci, ma che non reggono a un’analisi più approfondita e disincantata. Il tema della dignità della magistratura è certamente centrale, ma è difficile sostenere che questa dipenda dalla collocazione istituzionale del pubblico ministero. Anzi, il rischio concreto è che si stia utilizzando una questione simbolica, ideologica, per mascherare l’incapacità — o forse la mancata volontà — di affrontare i veri problemi della giustizia italiana: la lentezza cronica dei procedimenti e l’incertezza della pena.

I cittadini, infatti, percepiscono quotidianamente una giustizia che non funziona. Processi che durano anni, udienze che saltano per mancanza di personale o strutture, sentenze che arrivano quando ormai hanno perso ogni efficacia deterrente o riparatoria. Il dramma della giustizia italiana è tutto qui. La Corte europea dei diritti dell’uomo ha più volte condannato l’Italia per l’eccessiva durata dei procedimenti civili e penali.

Eppure, su questi nodi strutturali la riforma in discussione tace. Separare le carriere tra pubblici ministeri e giudici non produrrà alcun effetto concreto su questi fronti: non renderà più veloci i processi, non aumenterà l’efficienza degli uffici giudiziari, non rafforzerà la certezza della pena. È una riforma che incide sulla forma, non sulla sostanza. Una bandiera ideologica piantata per mostrare i muscoli, più che una risposta concreta a esigenze reali.

Uno degli argomenti usati a sostegno della separazione è quello delle cosiddette ‘porte girevoli’: magistrati che passano da una funzione all’altra, creando presunti conflitti di interesse o ambiguità istituzionali. Ma anche questo punto, se guardato con i numeri in mano, si rivela un falso problema. I dati mostrano che la percentuale di magistrati che cambiano ruolo (da requirente a giudicante o viceversa) è estremamente bassa: secondo l’ultima rilevazione, si tratta di poco più del 2% del totale.

Non si può dunque parlare di un fenomeno che mina la credibilità o l’indipendenza della magistratura. La realtà è che la quasi totalità dei magistrati resta nell’ambito in cui ha scelto di operare all’inizio della propria carriera. E dunque la riforma rischia di correggere un’anomalia inesistente. A rendere ancora più discutibile l’operazione politica è il paradosso rappresentato dal ministro della Giustizia, Carlo Nordio.

Oggi uno dei più accesi promotori della riforma, nel 1994 firmava un manifesto in cui si dichiarava contrario alla separazione delle carriere. All’epoca, da magistrato in attività, sosteneva che una tale misura avrebbe compromesso l’equilibrio fra le funzioni e reso il pubblico ministero troppo esposto alle influenze politiche.

Cosa è cambiato in trent’anni? È forse cambiata la natura del pubblico ministero, o è cambiato soltanto il contesto politico in cui quella posizione viene oggi assunta? Questo mutamento di opinione solleva interrogativi legittimi: la riforma risponde a una visione coerente della giustizia o a un calcolo politico legato al momento? Serve a migliorare il sistema o a ridimensionare un potere ritenuto scomodo se non addirittura fastidioso? Tra le preoccupazioni più serie sollevate dagli oppositori, c’è quella relativa all’autonomia del pubblico ministero.

Con la separazione delle carriere, e con la creazione di due distinti Consigli superiori (uno per i giudici, l’altro per i pm), si teme che il pm venga di fatto assoggettato al potere esecutivo, o comunque reso più permeabile alle sue pressioni. Una trasformazione profonda e pericolosa, che potrebbe mettere in discussione l’equilibrio tra i poteri dello Stato. In un Paese che ha conosciuto stagioni buie di interferenze e di commistioni tra politica e giustizia, l’autonomia e l’indipendenza del pm sono un presidio di legalità e di democrazia.

È vero che in altri ordinamenti — come quello statunitense — il pubblico ministero è un organo gerarchicamente dipendente dal governo. Ma è anche vero che si tratta di sistemi giuridici e costituzionali profondamente diversi, dove esistono contrappesi e controlli che in Italia non sono presenti. Importare modelli senza tener conto del contesto rischia di produrre distorsioni gravi, innescando processi difficili da governare e da invertire.

L’impressione che si ha — e l’ha detto con chiarezza anche Matteo Renzi, che pure si è dichiarato favorevole alla separazione delle carriere — è che questa riforma per la maggioranza sia ‘una bandiera da piantare’. Una bandiera, appunto. Un simbolo identitario più che una soluzione strutturale. Ma la giustizia, per essere riformata, ha bisogno di interventi radicali su altri fronti: primo fra tutti investimenti in personale e tecnologia. La separazione delle carriere non risolve nulla di tutto questo.

E rischia anzi di introdurre nuovi problemi, dividendo ulteriormente una magistratura già sotto pressione, e spingendo il sistema verso una deriva di politicizzazione ancora più marcata. Per tutte queste ragioni la riforma sembra più una risposta alle paure — o alle ossessioni — di una parte del mondo politico che un progetto per il futuro della giustizia. E questo è forse il segnale più allarmante perché la giustizia non può essere il campo di battaglia per vendette incrociate o riforme identitarie. Ha bisogno di visione e di scelte che guardino ai bisogni dei cittadini. E chissà che non siano proprio loro, i cittadini, a doversi pronunciare sulla riforma in un referendum che giorno dopo giorno appare sempre più probabile.

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Commenti all'articolo

  • cordamolle

    26 Luglio 2025 - 14:48

    Ma siete diventati succursale de La Repubblica per caso ? Un articolo spudoratamente contro la riforma e senza un contraddittorio,puzza di regime rosso

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