L'ANALISI
14 Maggio 2025 - 05:00
CREMONA - Cremona città ‘stacanovista’, con una media di 260,5 giorni di lavoro all’anno. Secondo l’ufficio studi della Cgia di Mestre, i cremonesi si collocano all’11º posto nella classifica delle provincie con più ore di lavoro su base annua (dati riferiti al 2023). Un impiego che, in generale, appare ben retribuito (circa 95 euro lordi a giornata).
Nel panorama italiano, i giorni in cui i cremonesi timbrano il cartellino superano di gran lunga la media nazionale (260,5 contro i 246,1 del dato italiano), anche se il discorso non è ugualmente valido per lo stipendio medio (la media italiana è di 96,14 euro al giorno). Ciò nonostante, i lavoratori cremonesi rimangono tra i più pagati d’Italia, con un reddito annuo di 24.743 euro annui; una cifra che assegna alla città del violino la 21esima posizione nella graduatoria delle provincie con la retribuzione più alta.
Il quadro tracciato dalla Cgia, che passa in rassegna ciascuna delle provincie, mette a nudo differenze molto ampie a livello locale, ravvisabile già a partire da un confronto tra le macroregioni: il Nord batte il Sud con un delta di ben 27 giorni lavorativi. Cambiano – e di molto – anche gli stipendi medi: al Nord, un lavoratore viene retribuito mediamente il 35% in più rispetto a chi svolge un impiego nel Meridione.
Si trovano dunque nelle regioni settentrionali le provincie che montano sul podio degli ‘instancabili’: in cima alla classifica, la provincia di Lecco, con 264,9 giorni di lavoro all’anno, seguita a stretto giro da Biella (264,3), Vicenza (263,5) e Lodi (263,3). Il capoluogo lombardo, sorprendentemente, si colloca al diciassettesimo posto, con una media di 258,8 giorni lavorativi nel 2023. Si tratta, in tutti e quattro i casi, di provincie in cui la retribuzione oraria si mantiene alta (a Lecco una giornata di lavoro vale mediamente 101,05 euro, a Biella 94,16, a Vicenza 97,35, a Milano il record di 133,07).
Anni luce di distanza dal fondo della classifica: secondo la Cgia, a Cosenza un lavoratore si reca sul posto di lavoro mediamente 215,8 volte all’anno, e guadagna 68,65 euro a giornata. A Nuoro i giorni lavorativi sono 205,2, mentre la paga giornaliera si aggira, in media, intorno ai 71,5 euro lordi. In fondo alla classifica: Vibo Valentia, con sole 193,3 giornate di lavoro ogni anno, e una retribuzione di 69,26 euro al giorno (vale a dire, poco più di 13mila euro all’anno).
Una spaccatura importante, che affonda le proprie radici in quei fenomeni socio-economici che serpeggiano sotto il calcolo della media matematica. Le analisi della Cgia riportano che i giorni lavorativi del meridione (228, contro i 255 del Nord) appaiono meno numerosi anche a causa del fenomeno dell’economia sommersa, che si sviluppa in parallelo rispetto a quella ‘pulita’ e che complica il conteggio delle ore lavorate irregolarmente. In secondo luogo, il calcolo è viziato da un mercato del lavoro connotato da una forte precarietà (che raggiunge una concentrazione maggiore al Sud), e che costituisce il punto di partenza per fenomeni quali «Una diffusa presenza di part time involontario, soprattutto nei servizi».
Il terzo problema: la presenza più diffusa di «tanti lavori stagionali, occupati nel settore ricettivo e dell’agricoltura, che abbassano di molto la media delle ore lavorate». «Ovviamente – specifica il report della Cgia – nelle aree geografiche del Paese dove le ore lavorate sono più elevate, anche la produttività è maggiore e conseguentemente gli stipendi e i salari sono più pesanti. Se al Nord la retribuzione media giornaliera nel 2023 era di 104 euro lordi, al Sud si è fermata a 77 euro».
Altra conseguenza: la produttività del Sud si dimostra, coerentemente, inferiore rispetto a quella delle regioni settentrionali. Secondo la Cgia, sempre nel 2023, la produttività «Al Nord era superiore del 34% rispetto a quella presente nel Sud. Va segnalato che le differenze salariali presenti in Italia nel settore privato sono un problema che ci trasciniamo almeno dagli inizi del secolo scorso. Purtroppo, in questi ultimi decenni il gap è sicuramente aumentato, perché le multinazionali, le utilities, le imprese medio-grandi, le società finanziarie / assicurative / bancarie, che tendenzialmente riconoscono ai propri dipendenti stipendi molto più elevati della media, sono ubicate prevalentemente nelle aree metropolitane del Nord».
A proposito di questa tipologia di imprese, avverte la Cgia, serve una precisazione ulteriore: «Va evidenziato che queste realtà dispongono di una quota di personale con qualifiche apicali sul totale occupati molto alta (manager, dirigenti, quadri, tecnici, etc.), addetti che per contratto vanno corrisposti stipendi importanti».
Il punto di arrivo di queste considerazioni, secondo la Cgia, è il tema del minimo salariale. Lo studio conclude che, anche alla luce di una segnalazione del Cnel, il problema dei lavoratori poveri «non parrebbe riconducibile ai minimi tabellari troppo bassi, ma al fatto che durante l’anno queste persone lavorano ‘poco’». La Cgia dunque sarebbe del parere che, piuttosto che istituire un minimo salariale per legge, «andrebbe contrastato l’abuso di alcuni contratti a tempo ridotto. Per innalzare gli stipendi dei lavoratori dipendenti, in particolar modo di quelli con qualifiche professionali minori, bisognerebbe continuare nel taglio dell’Irpef e diffondere maggiormente la contrattazione decentrata», ovvero quella di secondo livello.
A questo proposito, in tutta la Penisola, che gode di una quota di contrattazione collettiva nazionale tra le più alte d’Europa (quasi il 99 per cento del totale dei lavoratori dipendenti del settore privato), sarebbe opportuno «‘spingere’ per diffondere ulteriormente anche la contrattazione di secondo livello, premiando, in particolar modo, la decontribuzione e il raggiungimento di obbiettivi di produttività, anche ricorrendo ad accordi diretti tra gli imprenditori e i propri dipendenti». Anche perché la contrattazione decentrata rimane una via poco praticata, adottata solamente dal 23,1% delle imprese con almeno 10 dipendenti del settore extra-agricolo.
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