L'ANALISI
30 Marzo 2023 - 05:10
Mister Gustavo Aragolaza
CREMA - Nell’idea di calcio di Gustavo Aragolaza si riflette la sua esperienza di vita. C’è il percorso di quel ragazzino nato in Argentina, a Rawson, nel centro della Patagonia, che ha sempre sognato di giocare a calcio ai massimi livelli. Di chi ci ha provato da portiere, girando il mondo, e poi ha deciso di continuare il proprio percorso nell’ambiente del pallone. Di chi non ha smesso di crederci, ha rischiato, ha sofferto, ha faticato e, alla fine, è riuscito a dare forma al desiderio di arrivare ai massimi livelli. In Italia. Ovvero, «dall’altra parte del mare», come è intitolato il libro biografico che gli è stato dedicato e fresco di presentazione. Un mare che è in realtà la vastità dell’oceano e ne rappresenta bene la complessità del cammino del tecnico argentino, insieme di scelte e di speranze, di coraggio, di paure e di gioie. Vicende che gli hanno insegnato ad affrontare la vita con serenità, umiltà e coraggio. Ovvero i valori che Aragolaza porta in campo tutti i giorni per trasmettere ai suoi giocatori. Oggi, al Crema. La sua storia è un racconto in cui la vita personale e il calcio si sono intrecciate in un modo complesso e allo stesso tempo affascinante, attraverso il filo conduttore chiamato esperienza.
«Sono cresciuto nel Germinal – ha iniziato il 52enne tecnico argentino - poi a inizio anni ‘90 l’esperienza in serie B in Cile. Dopo una nuova parentesi al Germinal, mi sono trasferito al Cai Comodoro. È una realtà che svolge un importante lavoro a livello giovanile e in quegli anni hanno giocato con me pure il ‘Pitu’ Pablo Barrientos, Sergio Romero, Mario Santana. Nel 2001 la decisione di andare a giocare negli States alla Miami Strike e poi in Europa dove ho disputato tre stagioni nella UE de Sants di Barcellona».
In Spagna, nel 2005, ha avuto un infortunio al ginocchio e ha deciso di chiudere la carriera da portiere, ma Aragolaza ha cercato di proseguire la sua strada nel mondo del calcio. Ha seguito scelte complicate e coraggiose, ha avuto sfide da superare, ma anche incontri decisivi.
«Nel 2006 ho deciso di andare a vivere negli Stati Uniti: una scelta non facile, con l’ingresso da clandestino e tutte le forti paure collegate a quei momenti. Sono riuscito ad arrivare a Miami e ho iniziato a cercare lavoro, trovandolo nella stessa squadra in cui ero stato portiere. Con la società, il Cagliari aveva iniziato una sua attività negli States ed è stato proprio così che ho conosciuto Massimo Cellino. Con quel progetto ho cominciato come allenatore dei portieri sino a diventarne responsabile. Nel 2010 ho avuto problemi con il permesso di soggiorno, l’arresto e la dura esperienza del carcere. Avevo una vita normale, all’improvviso mi sono trovato a lasciare tutto, appartamento, auto, vestiti. Soprattutto, a perdere la libertà. Dopo due mesi, sono stato rimpatriato e mi sono trovato a ripartire da zero».
E mentre Aragolaza era in Patagonia è squillato il telefono ed è giunta la chiamata di Cellino, per tornare di nuovo su un campo di calcio, in Italia.
«Sono stato contattato – ha proseguito l’argentino - per venire al Cagliari: sono stato cinque anni in Sardegna, arrivando anche a lavorare in prima squadra, a fianco di Gianluca Festa, come secondo allenatore. Insieme siamo poi andati a Como in serie B. Nel 2017 in attesa di altre opportunità ho lavorato al centro formazione Inter a Oristano. L’anno dopo è arrivata di nuovo la chiamata di Cellino per andare a Brescia: due stagioni con l’Under 17 e poi la Primavera sino allo scorso giugno. Quando si è chiuso il lavoro con il Brescia: non è stato facile, ma l’ho accettato e devo comunque sempre ringraziare Cellino perché mi ha dato la possibilità di lavorare nel mondo del calcio. C’è stata poi l’esperienza a Giarre in D durante l’estate e quel periodo seppure brevissimo (è stata respinta l’iscrizione del club, ndr) è stato importante per me. Adesso la vita mi ha dato questa possibilità di allenare a Crema e sono molto felice».
Una gioia che è nel sorriso del rapporto quotidiano con la realtà nerobianca. Serenità, umiltà e coraggio sono aspetti che il tecnico trasmette costantemente.
«Le esperienze della vita sono la mia forza e le porto con me nel calcio. Mi hanno dato modo di trovare la serenità ed è l’aspetto che per me è più importante. Nulla è scontato e lineare, nella vita come nel calcio. La felicità c’è nel momento in cui vinci, ti manca quando invece perdi, ma se hai serenità hai il perfetto equilibrio per continuare il percorso nel modo migliore».
A Mezzolara, raggiungendo Aragolaza per l’intervista post gara, lo abbiamo trovato con in mano la scopa impegnato a pulire la zona antistante lo spogliatoio nerobianco. Un esempio di umiltà, che trova altre dimostrazioni durante la settimana.
«Se i ragazzi hanno fatto uno sforzo per me, per la squadra e per la società, allora meritano di stare tranquilli e ad altri aspetti ci pensiamo io e lo staff, senza problemi. È così pure in allenamento. Le due ore di lavoro devono però andare a mille, su questo non si scappa. Sono rigido, ma non sono drastico, neppure se il risultato non arriva: ‘se non si vince, si impara’ è una frase che porto con me da quando ho iniziato ad allenare. Pure la sconfitta ti aiuta a crescere».
Nel calcio di Aragolaza c’è un’altra citazione che l’argentino ha fatto sua ed è di Johan Cruyff.
«Giocare a calcio è semplice, ma giocare a calcio semplice è la cosa più difficile: seguo anche questa massima. La mia idea di pallone vuole essere propositiva, in fondo la cosa più bella è andare fare a gol. Mi piace la strategia, muovere con coraggio le pedine in campo per cercare sempre di fare risultato, perché a contare è la vittoria della vittoria. Poi se trovi gli avversari che sono più bravi complimenti a loro».
Della sua esperienza calcistica, Aragolaza porta con sé tanti ottimi rapporti: ci sono giocatori che il tecnico argentino ha seguito nel loro sviluppo sino a vederli ora campioni.
«Cito Nicolò Barella, l’ho visto crescere: a Cagliari ricoprivo anche il ruolo di responsabile del convitto e lo conosco da quando aveva 14 anni. Sono stato la prima persona che lo ha portato a Como. Posso aggiungere anche João Pedro, Daniel Bessa, Simone Scuffet e molti altri giocatori con cui ho avuto un rapporto speciale, essendo peraltro il tramite tra loro e l’allenatore».
Per questo è abituato a un confronto diretto con i giocatori e lo cerca in modo costante anche nella sua esperienza in via Bottesini. In nerobianco, il tecnico ha usato una metafora.
«Ai ragazzi ho detto che dovevamo tutti remare sulla barca verso la Patagonia. Siamo saliti a bordo con la vittoria sul Real Querceta, l’abbiamo fatta galleggiare con i due pareggi successivi, quindi, abbiamo provato a spingerla a Mezzolara e ora stiamo andando avanti. Stiamo lavorando nella stessa direzione, tutti insieme, per riuscire in questa nostra sfida».
Guardando al suo futuro, il tecnico argentino non fa calcoli, l’esperienza gli suggerisce di guardare giorno per giorno.
«Non mi prefiggo una meta. Nel 2006 avevo deciso di andare a vivere a Miami, mentre adesso mi trovo a Crema. Guardando indietro, rifarei il mio percorso. Perché se non fossi andato a cercare lavoro nella squadra in cui avevo giocato, non avrei conosciuto Cellino. Mi ha poi permesso di entrare nel calcio italiano, nella massima serie. In Italia ho avuto modo di incontrare il Papa e di conoscere tantissime persone. C’è un perché in tutto, anche se magari in quel preciso momento fai fatica a comprenderlo. Ho scelto di vivere giorno per giorno: conta la salute, poi tutto il resto si risolve. E la serenità è parte rilevante di questo processo. Così, guardando avanti, spero solo di trovare sempre in me questa voglia di continuare a dare alle altre persone».
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